Nessun luogo al mondo richiama alla mente la Via della Seta come Samarcanda. Le sue strade pullulano di miti e leggende e i monumenti costruiti da Tamerlano ne rendono magica l’atmosfera. Nonostante le recenti opere di restauro ne abbiano in parte trasformato il volto, avvicinandola alla tipica cittadina russa coi suoi viali e parchi, Samarcanda resta di una bellezza mozzafiato. Il Registan, il Gur-e-Amir, la Moschea di Bi- bi-Khanym e lo Shah-i-Zinda sono tra i monumenti più spettacolari dell’Asia Centrale. E, se si ripercorre a ritroso il filo della sua storia, non si può non ammirare la tenacia con cui Samarcanda sia rinata più volte dalle proprie ceneri.
“Fondata nell’VIII secolo a.C., Samarcanda è uno dei centri abitati più antico dell’Asia Centrale.” Malika, la guida turistica che abbiamo contattato, non perde tempo e ci incalza subito con un po’ di nozioni.
“Quando Alessandro Magno la conquistò, nel 329 a.C., affermò: ‘Tutto quello che ho sentito su Samarcanda è vero, tranne che è molto più bella di quanto immaginassi’.
La città fu per secoli il centro degli scambi commerciali lungo la via della seta e qui confluivano le carovane provenienti dalla Cina, l’India e la Persia. Rimase un centro assai popolato e commercialmente rilevante fino al 1220, quando la follia distruttrice di Gengis Khan la spazzò via dalla faccia della terra.
Di Samarcanda non rimase altro che un mucchio di macerie fino al 1370, quando Tamerlano decise di rifondarla e farne la propria capitale. Vi fece affluire artigiani ed artisti da tutta l’Asia Centrale, affinché offrissero le loro maestrie per ricostruirla e farla diventare un epicentro non solo commerciale ma anche culturale.
Suo nipote Ulugbek vi costruì un importante osservatorio astronomico, con un quadrante di 30 metri che desta ammirazione ancora oggi.
Nel XVI secolo, la città rischiò di nuovo si scomparire. La capitale dell’impero fu trasferita a Bukhara e Samarcanda, dopo diversi terremoti, venne quasi interamente abbandonata.
Furono i Sovietici, alla fine del 1800, ad instillarle nuova linfa vitale, collegandola alla rete ferroviaria transcaspiana”. In sostanza, possiamo dire che Samarcanda è una città tenace, che vuole esistere e sa resistere. Ogni volta che la si dà per spacciata rinasce dalle proprie ceneri. Già mi piace!
Arrivo a Samarcanda dopo il tramonto ed ho una sola cosa in testa. Il Registan, con la sua ampia piazza e le imponenti facciate piastrellate. Vi sosterei ore intere per ammirare le facciate delle madrase, ma una fila di transenne blocca i miei slanci entusiastici.
“Stanno allestendo uno spettacolo per domani sera”, mi dice un poliziotto. “Non è possibile accedere alla piazza di sera. I cantanti e i ballerini hanno bisogno di provare”. Un enorme palcoscenico occupa un lato della piazza e ci sono pedane e spalti sugli altri. La mia delusione è massima. “Potete visitare la piazza al mattino”, aggiunge la guardia per confortarmi. Il palco e gli spalti non spariranno all’alba, né sarà possibile cancellarli dalle foto, penso. “Va bene, grazie”, rispondo amareggiato. “Non ti preoccupare Andrea”, sussurra Giulia al mio orecchio. “Troveremo il modo di oltrepassare quelle transenne”.
Torniamo il mattino seguente e capisco che nessuna transenna può mettere il Registan in un angolo.
C’è una quantità di mosaici azzurri quasi esagerata, per non parlare della vastità degli spazi e dell’armonia con cui le tre madrase si relazionano tra loro. Senza ombra di dubbio, il Registan è uno dei luoghi più straordinari dell’Uzbekistan. Malika ha già iniziato la sua spiegazione. Faccio fatica a seguirla, con così tanta bellezza da ammirare.
“Al centro, è situata la madrasa Tilla Kari, completata nel 1660, che stupisce per i suoi interni rivestiti d’oro che simboleggiano la ricchezza di Samarcanda”. Il soffitto mi lascia di stucco. C’è così tanto oro che è impossibile non esserne attratti.
“Vedete la cupola? È un’illusione ottica. Il soffitto in realtà è piatto, ma i suoi raffinati motivi concentrici danno l’impressione che si tratti di una cupola”.
Ai lati della piazza, si fronteggiano la madrasa di Ulugbek e la madrasa Sher Dor. La prima, del 1420, ha dei motivi stellati sulla facciata, a testimoniare il profondo amore di Ulugbek per l’astronomia. Si dice tra l’altro che qui abbia insegnato matematica. La madrasa Sher Dor (del leone), è del 1636 e sfoggia decorazioni uniche. I felini che vi sono raffigurati mentre danno la caccia ai cervi contraddicono palesemente il divieto islamico di raffigurare animali viventi e sono infatti di ispirazione zoroastriana. Mi allontano dalla guida per qualche minuto e gironzolo per i cortili interni delle madrase. C’è un clima disteso e giocoso. All’interno della madrasa di Ulugbek è addirittura possibile vestirsi con abiti tradizionali e farsi fotografare per gioco. Un ragazzo dal sorriso avvenente ed un bambino dallo sguardo guerriero mi regalano qualche scatto magico.
“Andrea, corri!”, grida Giulia da lontano.
Sta parlando con un poliziotto e vedo che gesticolano con le mani.
“Una guardia ci lascia entrare all’interno degli appartamenti in disuso della madrasa!!”
Mi sembra un’occasione unica, quindi mi affretto a raggiungerla. Il tempo di arrivare e lei è già entrata dentro una porticina di legno malandata. Si inerpica su scale pericolanti, all’interno di un androne polveroso e scorticato. Il poliziotto mi ferma con un gesto della mano.
“Giulia! Questo qui non mi lascia entrare!”, le grido da fuori.
“Dagli cinque euro!”. Dagli cinque euro???
“Giulia! Per caso stiamo corrompendo un poliziotto???”.
“Sì, Andre. Sali su, è bellissimo!”
Spero di non trovarmi di nuovo nei guai, come è successo sul treno notturno per l’Uzbekistan. Ma oggi è il suo compleanno e la sua voce allegra è un richiamo irresistibile. Pago i cinque euro al poliziotto, che commenta “Be quick!”. Mi arrampico anche io per le strette scale impolverate, percorro i corridoi abbandonati e pericolanti.
Giulia è in fondo ad una stanza, rannicchiata per dare una sbirciata privilegiata alla facciata della madrasa Sher Dor. “Guarda che bello, Andrea! Da qui la vista è tutta un’altra cosa!”
Rimaniamo a guardare in silenzio. Poi il poliziotto ci fa un fischio spazientito. Il tassametro della corruzione è scattato velocemente.
“Avevo letto sulla guida che a volte i poliziotti si lasciano corrompere”, commenta Giulia. “Ma ti giuro che questa volta non me la sono cercata. È lui che mi si è avvicinato!”
Una breve corsa in taxi ed arrivo al Mausoleo di Gur-e-Amir. Ci siamo passati questa mattina presto, ma la facciata era in pieno controluce. Nel pomeriggio la situazione è di gran lunga migliore.
Qui riposano Tamerlano, insieme a due figli e due nipoti, tra cui Ulugbek. L’edificio è assai modesto, nonostante le piastrelle azzurre della cupola siano particolarmente belle. Il motivo sta nel fatto che Tamerlano non voleva essere sepolto qui, ma a Shakhrisabz, e aveva fatto costruire questo mausoleo per il nipote.
Il destino però dispose che, quando Tamerlano morì di polmonite, nel 1405, i passi per Shakhrisabz fossero inaccessibili per via della neve e quindi il grande condottiero fu sepolto qui. All’interno del mausoleo, è possibile visitare le lapidi di marmo di Tamerlano e dei suoi eredi. Al momento dell’apertura delle tombe, i sovietici poterono constatare che Tamerlano fosse effettivamente zoppo ad una gamba e che Ulugbek fosse morto per decapitazione. Allo stesso tempo, impararono a non sottovalutare la potenza di una maledizione.
Un’iscrizione sulla tomba di Tamerlano, infatti, recitava: “Chi aprirà questa tomba, sarà sconfitto da un nemico più temibile di me”. Il giorno dopo, le truppe di Hitler invadevano l’Unione sovietica. Almeno questo è quello che ci ha raccontato la guida questa mattina. E inizio ad avere il sospetto che in Uzbekistan la storia e le leggende si mescolino spesso per dare più sapore.
Sempre per rimanere in tema di morte e sepolture, visitiamo lo spettacolare viale di mausolei di Shah-i Zinda. Il nome significa “Tomba del Re vivente” e si riferisce alla tomba di Qusam Ibn-Abbas, la prima costruita lungo il viale e dedicata al cugino del profeta Maometto.
In seguito, Tamerlano e Ulugbek decisero di seppellirvi i parenti e di decorare i mausolei con alcune delle decorazioni più belle del mondo musulmano. Oggi Shah-i Zinda è una meta di pellegrinaggio particolarmente sentita a Samarcanda. Gironzolo alla ricerca di scorci interessanti e non resto deluso. Il continuo sfilare di fedeli e turisti lungo il viale è un memento mori efficacissimo. Non so se esiste il Paradiso, ma spero che abbia pareti decorate così finemente.
L’ultima tappa della mia visita a Samarcanda è la Moschea di Bibi-Khanym, che un tempo è stata tra le moschee più grandi del mondo musulmano. Fu costruita per volere di Tamerlano, che la finanziò con il bottino sottratto durante l’invasione dell’India. Le sue dimensioni sfidarono a tal punto le capacità dei costruttori che la cupola iniziò a cedere prima ancora che venisse terminata.
Nel corso dei secoli l’opera continuò a deteriorarsi e i materiali edilizi furono trafugati dagli abitanti di Samarcanda che ne avevano bisogno. Nel 1897, crollò parzialmente durante un terremoto e solo in tempi recenti sono iniziati i lavori di restauro. Malika assume un’aria drammatica e sgancia l’ennesimo pettegolezzo piccante della giornata.
“La leggenda narra che la moschea sia stata voluta da Bibi-Khanym, la moglie cinese di Tamerlano, che ne ordinò la costruzione mentre il marito era in guerra. L’architetto, però, si invaghì di lei e rifiutò di finire l’opera se non avesse ottenuto in cambio un bacio da Bibi. Lei accettò, pur di vedere la moschea finita. Ma il bacio fu così passionale che lasciò un segno sul volto di Bibi. La donna fu quindi costretta a coprirsi il volto per nasconderlo. Al suo ritorno, Tamerlano notò il velo sul viso della moglie, le chiese di rimuoverlo e così venne a conoscenza del tradimento. Infuriato, ripudiò la moglie ed ordinò di uccidere l’architetto. Inoltre, impose il velo a tutte le donne musulmane, così che gli uomini non fossero più in preda a tentazioni. Come tutte le mogli ripudiate, anche Bibi aveva il diritto di portar via qualcosa da casa, prima di esserne bandita. Così, si presentò davanti a Tamerlano con un grosso sacco vuoto. Lui le chiese cosa volesse metterci dentro e Bibi rispose: “Voglio metterci dentro te, che sei l’unica cosa a cui tengo”. Il re fu così colpito dal gesto di amore della moglie che decise di perdonarla”. Non è questo il vero finale della leggenda – almeno non lo è secondo la mia guida turistica – ma Malika decide di raccontarci questa versione romantica ed edulcorata e a me sta bene così!
Mentre passeggio per la moschea, che ha ancora parti diroccate, mi imbatto in una coppia di sposi. Ne ho incontrati molti anche a Khiva e Bukhara. Sorrido e loro mi lasciano scattare qualche foto. “In Uzbekistan”, mi dice la guida, “si dice che una giovane donna è come una gazzella. Quando si sposa diventa un’antilope e quando ha dei figli, una vacca”. “Come una vacca?”, chiedo stupito. “Una vacca, perché ingrassa e lascia che siano le figlie ad occuparsi di tutto”. Non sono immagini molto rispettose e la guida non deve pensarla diversamente. “In realtà anche gli uomini sposati ingrassano. Bevono e mangiano senza misura!”.
A Khiva, ho assistito ad una cerimonia di matrimonio che mi ha molto colpito. La sposa continuava ad inchinarsi davanti al marito, in segno di rispetto. Avrei voluto vedere anche il marito inchinarsi, ma non lo ha fatto. “Le cose stanno cambiando, specialmente nelle città”, mi confida Malika.
“La tradizione vuole che i matrimoni siano combinati. La madre del futuro sposo sceglie la futura sposa e va a parlare con la madre. Le dice ‘Che bel giardino che hai! Io ho un picchio a cui piacerebbe molto venire a beccarlo’. Se la donna accetta, il matrimonio è combinato.” Le chiedo se è sposata e mi risponde di sì. “Ma ho rifiutato tante proposte, prima di accettare. Ho scelto io il ragazzo che mi piaceva!”
Proprio accanto alla moschea c’è un vivace mercato, il Bazar Siyob. Mi intrufolo cercando di non dare nell’occhio, ma la mia macchina fotografica desta molte attenzioni. I commercianti si lasciano fotografare senza problemi, anzi si mettono addirittura in posa. Come ho avuto modo di costatare spesso durante il viaggio, qui l’ospitalità è un valore davvero radicato.
Mentre per i cristiani è buona norma condividere con il prossimo ciò che si ha, per i musulmani è addirittura doveroso dare tutto all’ospite. Nel mio caso, le persone hanno capito quello che cercavo e me lo hanno offerto, donando il loro sorriso migliore per i miei scatti. Bambini, ragazzi, adulti e anziani appena incontrati hanno deciso di concedermi un po’ del loro tempo. E tutti hanno ringraziato per essere stati fotografati, portandosi la mano sul cuore in segno di gratitudine.
Lascio questa città davvero a malincuore. Di ritorno in albergo, decidiamo di fermarci per un’ultimo sguardo al Registan. Lo spettacolo è in corso. Sulle facciate delle madrase vengono proiettate immagini mozzafiato e i ballerini hanno preso possesso del palco. Giulia è decisa ad oltrepassare le transenne. Si avvicina ai poliziotti e sorride a 34 denti. “Oggi è il mio compleanno! Mi fate un regalo? Posso passare ed assistere qualche minuto allo spettacolo da vicino?”. I poliziotti si guardano tra loro, scuotendo la testa. “Non è possibile! Mi dispiace!”
“Ma io non tornerò mai più qui a Samarcanda. Lasciatemi vedere il Registan un’ultima volta!”
Si capisce dai loro sguardi che vorrebbero accontentarla, ma proprio non possono. Vociferano tra loro, chiamano il superiore e gli spiegano la situazione. La natura del problema che poniamo è duplice. Non si tratta solo di leggi da rispettare. Si tratta di qualcosa che va ben oltre: si tratta di ospitalità verso uno straniero.
La scelta è presa all’unanimità. Dei sorrisi accoglienti si dipingono sui loro volti e Giulia e io siamo accompagnati dall’altra parte delle transenne, tra gli ospiti d’onore.
“Andre, guarda che meraviglia! Che bel regalo di compleanno!”
Siamo nel cuore della piazza del Registan, che è il cuore dell’Uzbekistan. E, portandoci la mano sul petto, ringraziamo i poliziotti per averci fatto sentire così accolti.