Sotto molti aspetti, l’Asia centrale è ancora un territorio inesplorato. Per secoli questa area è rimasta inaccessibile agli occidentali: ecco perché ci appare circondata da un alone mistero, relegata in un altrove sconosciuto. Ancora oggi, gli stati dell’Asia centrale rappresentano per molti europei poco più di uno spazio vuoto sulla cartina geografica. Tuttavia, negli ultimi anni, le cose stanno cambiando: le città uzbeke sulla via della seta – Khiva, Bukhara e Samarcanda – sono infatti diventate meta di turismo di massa. E resistere al loro fascino sarà sempre più difficile, visto che per visitare il paese dal 2019 non è più necessario richiedere il visto turistico.
“Sei italiano?”, mi chiede un ragazzo appena varco le porte di Khiva.
“Sì, come fai a saperlo?”, rispondo.
“Negli ultimi due anni quasi tutti i turisti sono italiani qui in Uzbekistan!”, afferma con un grande sorriso.
Proseguo la mia passeggiata per l’Ichon-Qala (la città fortificata cinta da mura): in effetti, si sente un continuo vociare nei più disparati accenti nostrani. È un brusio che stride fortemente con il colore turchese delle piastrelle lucenti che adornano le moschee, con le sagome appuntite dei minareti e le splendide facciate delle madrase. Continuerò ad imbattermi in orde di conterranei lungo tutto il viaggio e presto ci farò l’abitudine. È buffo: pensavo di venire in Uzbekistan per vestire i panni dell’esploratore, ma è evidente che qui siamo in molti a contenderci il ruolo del novello Marco Polo.
Non mi resta che abbandonarmi al fascino esotico del posto, vagare per i vicoli del centro storico e fantasticare sulle vicende cruente e tumultuose che vi hanno avuto luogo. Per una volta, mi terrò lontano da scomodità e affanni: mi lascerò coccolare da ottimi locandieri e ristoratori, il mio cuore si riempirà dei loro sorrisi generosi e autentici e lascerò che simpatiche guide turistiche mi riempiano le orecchie con i racconti di gesta e avventure ben più pericolose e avvincenti di quelle che la vita potrà mai riservarmi. Alessandro Magno, Gengis Khan, Marco Polo e Tamerlano sono tutti passati di qui, lasciando un’impronta indelebile.
Khiva è una delle città più affascinanti dell’Uzbekistan: la leggenda dice che fu fondata da Sem, il figlio di Noè, nel punto in cui trovò l’acqua scavando un pozzo. Evidenze storiche dimostrano che Khiva esisteva già nell’VIII secolo, come stazione commerciale lungo la via della seta.
Il suo centro storico, circondato da un’alta cinta muraria di mattoni crudi, è talmente ben conservato da essere diventato patrimonio dell’Unesco nel 1990 ( si tratta del primo sito uzbeko ad aver ricevuto tale riconoscimento).
Ma questa splendida cittadina, oggi interamente votata al turismo, in passato evocava scenari assai meno rassicuranti. Giungervi era quasi impossibile, se non per viaggiatori così temerari da affrontare steppe e deserti infestati dai predoni turkmeni. Assai più probabile, invece, era venire catturati e trasportati in città per essere rivenduti come schiavi. Dal XVI al XIX secolo, infatti, Khiva fu il maggior polo commerciale per la tratta degli schiavi di tutta l’Asia minore.
L’Ichon-Qala di Khiva è difesa da splendide mura di mattoni crudi lunghe 2,5 km e risalenti al XVIII secolo. Ha tre porte di accesso: la biglietteria è posta sulla porta occidentale, che è munita di due torri ed è anche l’ingresso ufficiale della città. Una volta entrato, potrò rimanere tutto il giorno e visitare i musei all’interno. La mia guida si chiama Zilola, è una ragazza molto giovane, di aspetto decisamente avvenente. Stonano un po’ le gambe pelose ma ha uno sguardo magnetico, da guerriera.
“A Khiva abbiamo un temperamento sanguigno”, esordisce. “All’inizio del 1700, chiedemmo aiuto alla Russia per difenderci dalle tribù dei predoni. Loro inviarono un esercito di 4.000 uomini ma impiegarono più di 10 anni ad arrivare. A quel punto, non avevamo bisogno di nessun aiuto. Ospitammo i soldati russi presso alloggi confortevoli, ma li assassinammo durante la notte. Tutti tranne un paio, affinché potessero tornare in Russia a raccontare l’accaduto”. All’improvviso, le si illumina il volto. “Avete già assaggiato il plov, il nostro piatto tipico? Stufato di carne, verdure e riso. È afrodisiaco! Dovete assolutamente mangiarlo”. Un cambio di argomento così repentino che sento un brivido percorrermi la schiena…
Ad ogni modo, per completezza di racconto, è doveroso ricordare che due secoli dopo, i Russi invasero tutto il paese, lo annessero e nel 1924 proclamarono la nascita della Repubblica Socialista Sovietica di Uzbekistan. Un classico esempio di vendetta servita fredda.
Seguo Zilola lungo le stradine del centro, tutte assolate, vivaci e affollate di bancarelle per turisti. Vengo attratto dai numerosi negozi di colbacchi turkmeni, in lana e pelliccia di pecora, per i quali Khiva è rinomata.
A pochi metri dalla porta occidentale, un grande edificio a forma di sigaro tagliato, ovviamente color turchese, si staglia contro il cielo.
“Quello è il minareto Kalta Minor, che significa “minareto corto”. Il khan Mohammed Amin voleva costruire il minareto più alto d’oriente, così alto da poter essere visto fino a Bukhara. Purtroppo nel 1855 morì, lasciandolo incompiuto a circa un terzo della sua altezza. Suo figlio voleva portarlo a termine, in onore del padre, ma il suo consigliere gli fece notare che avrebbe speso tutta la vita a costruire il minareto del padre. Tutti si sarebbero ricordati di suo padre, ma nessuno di lui. Allora il nuovo khan decise di lasciarlo incompiuto”. Vatti a fidare dei figli!
La tappa successiva è la fortezza di Kuhna Ark, antica residenza dei sovrani di Khiva. Dotata di tutto il necessario per la serenità reale, è composta da un harem, la zecca di stato, le scuderie, la moschea estiva e la prigione.
“La prigione è molto piccola”, ci fa notare la guida. “Può ospitare al massimo una decina di persone. Questo perché quasi nessuno delinqueva. Se rubavi qualcosa, ti tagliavano le dita. Se rubavi di nuovo, ti tagliavano le mani”. Efficace e definitivo.
“L’harem è dove vivevano le donne del sovrano. Lui veniva qui per fare l’amore, ma non restava mai di notte. Le donne erano molto gelose le une delle altre e il sovrano temeva di essere ucciso nel sonno”. Mai una gioia.
Facciamo una capatina alla moschea Juma, costruita dell’VIII secolo. La sua caratteristica principale sono le 218 colonne lignee, alcune delle quali originali e quindi ormai millenarie. “Queste colonne hanno visto tanta storia e sono ancora qui per permetterci di pregare”. Trovo questa moschea, buia, spoglia e difficile da fotografare; eppure, riesco a coglierne il valore grazie al trasporto con cui la Zilola ce la descrive.
Seguono la visita al mausoleo di Pahlavon Mahmud, il santo patrono della città, e alla madrasa di Islom Huja, con l’omonimo minareto. Salgo fin su in cima al minareto, che ha la fisionomia di un faro e, con i suoi 57 metri, è il più alto del paese: le scale sono anguste, con gradini molto alti e irregolari, ma la vista che si gode dalla cima ripaga dello sforzo!
A pochi metri dal mausoleo di Pahlavon, appena imboccata una stradina laterale, mi imbatto in un piccolo laboratorio di artigianato, dove dei ragazzini intagliano cornici e piccoli oggetti ornamentali.
“Italiano?”, mi grida uno dei ragazzi da lontano. Ci risiamo.
“Sì!”, rispondo.
“Totti! Calcio! Toto Cutugno!”
Le loro età vanno dai 12 ai 16 anni. Non c’è nessuno a controllarli, eppure scherzano con me senza smettere di lavorare, dimostrando una grande etica del lavoro.
Al tramonto, salgo sulla sommità delle mura occidentali e ammiro le facciate dei palazzi che riflettono gli ultimi raggi di sole. C’è una vista incantevole. Zilola ci lascia godere del panorama, ci saluta allegramente e sparisce tra la gente che brulica per le viuzze del centro.
Sta per fare buio: il cielo trattiene ancora qualche briciola di luce, i lampioni delle vie sono già accesi e il centro storico sprigiona tutto il suo fascino.
Ovunque il mio sguardo incontri quello di un passante o di un negoziante ricevo in dono un sorriso accogliente. Se cerco di rubare una foto e vengo scoperto, le persone scoppiano a ridere e si mettono in posa.
L’ospitalità uzbeka non ha confini. Qui uno straniero è considerato sacro e merita la migliore accoglienza possibile. Ciascuno è tenuto a donargli, letteralmente, tutto quello che ha. Mi fermo a giocare con i bambini del posto, a scambiare strette di mani con gli anziani. Chissà quanta di questa gentilezza in passato ha rifocillato un viandante affamato, o salvato la vita ad un profugo fatto schiavo. Ma la gentilezza, si sa, di rado finisce nelle pagine dei libri di storia.
Ci sono stato anch’io qualche mese prima di Te, e le impressioni da te descritte sono perfettamente coincidenti con le mie.
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3 Comments
Votre sujet est très intéressant et je suis très impressionné par la lecture de votre article .
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