La leggenda narra che i Pa’o siano i discendenti del drago. Una femmina di drago arrivò sulla terra e si travestì da donna: incontrò un alchimista di nome Zawgyi e si innamorò di lui. I due decisero di vivere insieme nel fondo di una caverna. Ma un giorno l’uomo si svegliò durante la notte e trovò la caverna vuota. Si inoltrò nella foresta e sorprese la sua amata che dormiva su un giaciglio di foglie nella sua forma di drago. Sconvolto, tornò indietro e decise di abbandonarla.
Il drago, incinta di due uova, aspettò il ritorno del suo amato per giorni; alla fine, disperata, decise di lasciare le uova in un monastero e di tornare nel regno dei draghi. Le uova si schiusero, dando vita al re e alla regina dei Pa’o. Ancora oggi, i turbanti colorati che indossano ricordano la testa del drago e i drappi dei loro abiti le sue scaglie.
Mentre passeggio per i sentieri fangosi del villaggio e sorrido ai bambini timidi che fanno capolino dalle capanne di bambù, posso già scorgere in lontananza lo scintillio delle acque del lago Inle. L’atmosfera è rilassata e i tempi sembrano dilatarsi.
I Pa’o sono il secondo gruppo etnico più diffuso nello stato Shan (il settimo del Myanmar), professano la religione buddista e hanno radici tibetane.
Nel villaggio ci sono diversi tempi buddisti ed è divertente notare che la maggioranza delle offerte votive non sono i frutti della terra, ma le bevande zuccherate delle grandi catene commerciali occidentali. Immagino debba essere costoso comprarle per i Pa’o e quindi ritenute particolarmente gradite nel tempio.
A parte questa piccola intrusione della vita moderna nella quotidianità del villaggio, i Pa’o sono molto legati alle loro tradizioni: abitano in case-palafitta di bambù e vivono di un’agricoltura di sussistenza che include la coltivazione di aglio, zenzero, noccioline e diversi tipi di legumi.
Il terreno è molto fertile qui e ripaga i loro sforzi: quasi ogni palafitta ha un capanno adiacente che funge da granaio. In questo periodo dell’anno, vi sono riposte teste d’aglio e pannocchie, mentre distese di radici di zenzero sono esposte all’aria ad asciugare. In realtà oggi ha piovuto molto, quindi le radici sono state lavate più che asciugate.
Tutte le strade sono diventate uno scivolo di fango. È difficile mantenersi in equilibrio e tra uno scivolone e l’altro, mi imbatto in bambini che invece di evitare il contatto con il fango, ci sguazzano dentro felici.
Incontro anche delle bellissime ragazze, con il viso dipinto con la Thanaka. Si tratta di un cosmetico ricavato dal legno di limonia acidissima polverizzato. Lo usano soprattutto le donne (ma anche qualche uomo), applicandolo sul viso per purificare la pelle, profumarla e proteggerla dal sole.
Un altro aspetto della cultura locale, e birmana in generale, è il grande senso di riguardo verso il prossimo: l’ana( အားနာ ). I birmani temono che le loro azioni o richieste possano creare disagio all’altro, le cui necessità sono tenute in grandissima considerazione.
Ecco allora che, per non mancare di rispetto, i birmani tendono a non dire e non fare nulla che possa procurare imbarazzo alla persona con cui si parla.
L’ana è un concetto che non ha equivalenti in Europa, quindi è difficile per noi comprendere il modo in cui pervada tutta la società birmana.
Si manifesta soprattutto nelle relazioni formali, con gli sconosciuti o con i conoscenti, mentre le relazioni tra famigliari e amici sono più spontanee. Anche queste però sono improntate alla cura e al rispetto affettuoso, specialmente nei confronti degli anziani che in Birmania vengono venerati come gioielli.
L’ana può manifestarsi, in famiglia, nel non dire di essere malati per non far preoccupare i propri cari; tra amici, nel non dire di avere fame per non scomodare l’ospite. In una conversazione, si evita inoltre di esprimere opinioni che possano offendere o creare attrito tra i presenti.
Durante il trekking nel villaggio Pa’o, ho avuto modo di sperimentare due aspetti dell’ana e ne sono rimasto molto colpito.
La guida Pa’o, a metà giornata, ci ha ospitato a casa sua per pranzo. Ci siamo tolti le scarpe prima di entrare e ci siamo seduti con le gambe incrociate per non rivolgere i piedi verso gli altri (entrambe sono considerate norme di buona educazione). Ci sono stati serviti antipasti e piattini di frutta, verdure lessate, fagioli. La mia amica Barbara, volendo fare un complimento, ha sollevato uno dei piattini dicendo che lo aveva particolarmente gradito e chiedendo se ce ne fosse dell’altro.
La guida si è allora sentita obbligata ad offrirgliene ancora, ma non ne aveva più a disposizione. Il suo imbarazzo era evidente e per scusarsi ha iniziato a prostrarsi a terra chiedendoci perdono infinite volte. Barbara cercava di dirgli di non scusarsi, perché voleva soltanto complimentarsi per l’ottima cucina, ma ad ogni complimento la guida si sentiva sempre più in difetto per non averci preparato porzioni più abbondanti. La scena è diventata così surreale che ne siamo tutti imbarazzati!
Ho già accennato alla giornata piovosa e al fango che si è creato lungo le stradine terrose. Ebbene, al termine del nostro trekking, ci siamo accorti di avere chili di fango attaccato sotto le suole delle scarpe. Abbiamo iniziato a scherzarci sopra, facendo finta di non riuscire a camminare per via del peso che avevano raggiunto le scarpe.
La guida si è sentita in obbligo di toglierci il fango dalla suola uno per uno. È stato impossibile impedirglielo. La gioia che provava nel mettersi al servizio di noi ospiti e l’imbarazzo che provava se non acconsentivamo a farci pulire gli scarponi sono ancora impressi nella mia memoria.
Il Myanmar è spesso definito la terra della gentilezza. E davvero lo è. Se pensate di recarvi nel paese, sappiate che avrete la responsabilità di non ferire la sensibilità di uno dei popoli più gentili al mondo.