“Da secoli, ogni giorno, alle prime luci dell’alba, decine di migliaia di monaci, scalzi, avvolti nelle tuniche arancioni, escono dai loro monasteri e in fila indiana, con una ciotola vuota nelle mani, vanno per le strade della città e dei villaggi. Il loro arrivo è spesso annunciato dal suono di un gong battuto da un giovanissimo bonzo che precede i questuanti. La gente aspetta sulla porta delle case e, con delicati gesti di devozione, offre riso, frutta e fiori ai monaci che passano. Questo non è solo un rito che segna il ritmo della vita di ogni giorno, è soprattutto l’occasione che un buddista ha di guadagnarsi, con le sue offerte, dei meriti della vita di poi.”
– Tiziano Terzani
Con queste parole, Tiziano Terzani inizia la descrizione di uno dei riti più affascinanti che caratterizzano la società birmana: il pranzo dei monaci buddisti.
È difficile per un occidentale comprendere il forte valore identitario che la figura del bonzo, il monaco buddista, riveste nella società birmana. Avere un figlio monaco dona prestigio all’intera famiglia, perché con la sua vita di rinuncia ad ogni comodità, con gli interminabili anni di studio dei testi sacri e soprattutto con la pratica quotidiana della meditazione, egli si fa portatore di un valore inestimabile per l’intera società.
Terzani racconta di come la dittatura militare che governò il paese fino al 1996 e che era solita reprimere con la violenza ogni forma di protesta studentesca sia stata messa in ginocchio, nel 1991, da un gruppo pacifico di bonzi. I monaci di Mandalay, dopo l’ennesima repressione armata ai danni di cittadini inermi, decisero di non bussare più alle porte dei militari, rifiutandone di fatto le offerte. Il governo dittatoriale avvertì un tale pericolo per la tenuta politica del regime che ricoprì di soldi tutti i monasteri del paese, cercando di comprarne il consenso.
Ad Amarapura, antica capitale del regno birmano situata nei dintorni di Mandalay, è ancora possibile assistere alla vita quotidiana di migliaia di monaci, adulti e bambini, che si radunano nel Monastero di Mahagandayon per consumare tutti insieme il pasto ricavato dalle offerte raccolte nei villaggi limitrofi.
Camminano in silenzio, con lo sguardo rivolto all’orizzonte, in fila indiana, con le tuniche arancioni e la ciotola di lacca nera lucida tra le braccia: dapprima si scorgono solo piccoli gruppi, ma ad ogni vicolo e dopo ogni angolo di strada, il loro numero cresce fino a raggiungere le dimensioni di una piccola milizia alle porte del refettorio.
Il monastero di Mahagandayon è stato fondato nel 1908 ed è il centro di studi religiosi più grande del paese. Ospita più di mille monaci e ogni giorno vi si raccolgono anche i bonzi dei villaggi vicini. Qui si vive secondo gli insegnamenti più rigidi del codice monastico del Vinaya.
A partire dalle 10, inizia il rito del pranzo: le offerte raccolte dai monaci nelle stradine del villaggio vengono portate in cucina, cotte e infine servite nella sala del refettorio.
Ho la fortuna di visitare le cucine del monastero: uno spazio immenso, aperto, protetto da un solido tetto di lamiera dove i monaci assegnati al servizio cucinano impressionanti quantità di verdure in recipienti grandi come vasche da bagno.
Quando il pasto è pronto, i monaci si dispongono in doppia fila lungo la strada principale del monastero e si avviano al refettorio comune. Un monaco incaricato, con l’aiuto da alcune donne, versa nella ciotola a ciascuno la propria porzione. Vedo i monaci scivolare dentro la grande sala apparecchiata e mangiare in silenzio (in realtà, i più giovani non riescono a non scambiarsi qualche parola a bassa voce).
Alla fine del pranzo, quando i primi monaci lasciano la sala, noto che molti di loro portano via una ciotola ancora piena di cibo. L’hanno mangiata solo per metà e adesso donano ciò che è avanzato ai bambini poveri del villaggio, che li attendono impazienti dietro l’angolo.
La sensazione di misticismo e devozione è purtroppo rovinata dalla presenza di turisti, per lo più cinesi, che si riuniscono per assistere al rito. Tutti hanno grande rispetto per i monaci ma la loro curiosità e il desiderio di scattare foto, moltiplicato per quanti siamo, ha un impatto devastante sulla vita del monastero. Ho la sensazione che la mia stessa presenza inquini la magia del posto. Soprattutto, soffro a vedere i turisti scattare raffiche di fotografie ai bonzi, alcuni dei quali ancora bambini.
Prima di venire ad Amarapura avevo sentito parlare entusiasticamente di questo posto, alcuni miei colleghi fotografi avevano fatto sfoggio di immagini molto suggestive. Volevo produrre anche io degli scatti indimenticabili, ma trovandomi davanti ad un simile sovraffollamento di turisti, vengo assalito dal desiderio di proteggere questo mondo fatto di silenzio e preghiera.
Scatto pochissime foto, da lontano, e decido di farmele bastare. Può la mia presenza, insieme a quella degli altri visitatori, cambiare la qualità dei pensieri nelle menti dei monaci? E che diritto ho io di disturbare la loro ricerca di concentrazione e quiete?
In fondo, il mondo non ha bisogno di altri fotografi rampanti; urge invece la presenza di viaggiatori dotati di una etica di ferro, che sappiano essere invisibili per quanto possibile. Nessun monaco ha dovuto sorridermi in imbarazzo, né voltarsi dall’altra parte per evitare un mio ritratto. E forse ho perso l’occasione di portare a casa uno scatto memorabile, ma ho il cuore libero da rimorsi.
Ho visitato il monastero nel 2018. Ho letto che da qualche tempo il monastero resta chiuso ai turisti negli orari dei pasti. Nel più grande monastero della Birmania i monaci possono di nuovo mangiare un pasto indisturbati. È una delle migliori notizie di questo antipatico 2020.
A pochi chilometri dal monastero di Mahagandayon c’è l’attrazione principale di Amarapura. Si tratta del ponte di U Bein, il più antico e lungo ponte di teak del mondo.
Fu costruito nel 1850, dopo che Amarapura tornò ad essere la capitale del regno birmano. Il ponte, lungo 1,2 km, taglia in due il lago Taungtaman, consentendo ai pedoni di attraversarlo con facilità. Incredibilmente, è stato interamente ricavato dal legno che una volta costituiva il palazzo reale di Ava.
1.086 pilastri di teak sostengono un ballatoio privo di corrimano, cosa che rende la vista dei pedoni ancora più suggestiva.
Ho la fortuna di visitarlo al tramonto, quando il sole in controluce lo trasforma in un relitto gigante, stilizzato, simile ad un millepiedi preistorico.
Un barcaiolo mi offre una breve traversata del lago, per ammirare il tramonto da una posizione privilegiata. Siamo ad aprile e la stagione secca ha abbassato notevolmente il livello delle acque del lago. Distese di ninfee infestanti fanno da poggiapiedi per la sottile struttura del ponte, che si estende elegantemente da una riva all’altra del lago.
Resto in silenzio a guardare il sole abbassarsi all’orizzonte, con la mente vuota e lo spirito appagato. All’improvviso, quasi prendendo la rincorsa, il sole si tuffa nelle acque del lago e scompare. Dimentico di fotografare l’istante: Amarapura ha addormentato il fotografo che sono e risvegliato il monaco che, in un’altra vita, forse sono stato.
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2 Comments
Bellissime le foto che mi fanno viaggiare nel mondo pur seduta sul divano.
Trovo comunque i tuoi commenti altrettanto encomiabili, profondi e denotano una equilibrata e matura sensibilità.
….sembra il commento ad un compito in classe !!! ah ah ah deformazione professionale.
No, o non solo, ho avvertito la necessità di comunicarti queste mie sensazioni leggendo i tuoi commenti.
Un abbraccio e congratulazioni!
Bellissimo articolo!