Non si può visitare la Mongolia senza passare per la sua capitale, Ulan Bator. Ed è importante capirne le dinamiche per comprendere l’intero paese. Ulan Bator è considerata la capitale più brutta, più fredda e la terza più inquinata del mondo. Viene voglia di starne alla larga.
Ma è davvero così? Ha senso visitarla, dedicandole qualche giorno, o è meglio preferirle altre destinazioni? Ecco le mie riflessioni dopo avervi trascorso 3 giorni a marzo, durante le ultime gelate invernali, e averla conosciuta attraverso il punto di vista privilegiato di un residente doc, la mia eccellente guida Sanjaa.
Le guide turistiche sconsigliano apertamente di visitare la Mongolia in inverno. Il clima è rigido, con temperature molto al di sotto dello zero, e i voli interni possono subire notevoli ritardi a causa delle tempeste di neve. Le steppe mongole, bucoliche e verdi in estate, appaiono marroni, striate di ghiaccio, senza alberi a frenare le sferzate dei venti siderali.
In queste condizioni, nessun itinerario è sicuro e la maggior parte delle strutture turistiche chiude. L’inverno in Mongolia è un periodo di attesa, di riposo, direi quasi di letargo fisico e psicologico.
Ciononostante, l’idea di poter ammirare la Mongolia fuori dalla stagione turistica e carpirne un affresco insolito, sincero, autentico mi affascina da sempre e quando mi viene proposta l’idea di trascorrere qualche giorno sperduto sui monti Altai, ospite di una famiglia di Eagle Hunters, non resisto alla tentazione e accetto!
Il mio è un itinerario insolito, più difficile e aspro di quello estivo, ma decisamente più folkloristico. Assisto al Navrus Festival di Olgij, che celebra l’arrivo della primavera con una sfilata cittadina a cui presenzia il presidente mongolo in persona; partecipo all’Eagle Festival di Sagsai, che per la prima volta si tiene a marzo (e non ad ottobre), a conclusione della stagione di caccia con le aquile; infine, vivo per qualche giorno in una ger, la tipica tenda di feltro circolare mongola. Tengo testa alle rigide temperature notturne, con picchi di meno 15 gradi, rannicchiato dentro 3 sacchi a pelo e facendo i turni per mantenere accesa la stufa a carbone!
Che dire? Sono un ragazzo fortunato!
Al mio arrivo in Mongolia, sono costretto a soggiornare qualche giorno ad Ulan Bator. Il volo interno che mi porterà a Olgij, infatti, parte solo 2 volte a settimana, cioè tra due giorni. Lo stesso capiterà al mio ritorno, quindi in totale soggiornerò nella capitale quasi 4 giorni.
Vista la nomea della città, non sono molto eccitato all’idea di sostarvi così a lungo ma quello che a prima vista sembra solo tempo perso si rivela in realtà il migliore approccio possibile alla cultura e allo stile di vita mongolo.
Tutto di Ulan Bator è unico – la sua storia, la sua locazione, lo stile di vita che impone.
Ulan Bator, in inglese Ulaanbaatar, è la città più popolosa della Mongolia. In effetti potremmo dire che è la sola vera città del paese, almeno secondo l’idea di città che abbiamo noi europei. Qui abita il 45% della popolazione mongola, che in tutto conta appena 3,4 milioni di persone.
Tanto per fare un paragone, si stima che Roma sia abitata da circa 2,8 milioni di abitanti, che diventano 4,4 milioni se si conta la sua area metropolitana. Uno scarto notevole, che ci aiuta nel raffronto ma che non deve sorprendere, considerando che la Mongolia è il sesto paese più spopolato del mondo.
Di Ulan Bator, intesa come capitale della Mongolia, si hanno testimonianze almeno dal 1600. Ma non si è sempre chiamata Ulan Bator e non si è sempre trovata dove è oggi. La capitale della Mongolia infatti è stata per secoli una città nomade.
Esisteva ed aveva nell’immaginario mongolo la forza di un ideale, ma cambiava nome quando si spostava e si spostava spesso, più volte l’anno, ogni volta che il bestiame aveva bisogno di nuovi pascoli. Allora le gher venivano smontate, trasportate e rimontate altrove. D’altronde il nomadismo è il cuore della cultura mongola e ancora oggi è praticato da circa il 30% della popolazione.
Nel 1778, la capitale venne collocata nella sua posizione attuale, in una conca ai piedi della montagna sacra di Bogd Han. Protetta dai venti e bagnata dal fiume Tuul, prese il nome “Città di feltro” – almeno fino al 1924, quando i russi le daranno il nome attuale, Ulan Bator ( Eroe Rosso), in onore del comunismo.
A partire dal 1940, i sovietici iniziarono ad edificare la città in tipico stile russo, distruggendo i monasteri e gli edifici preesistenti e rimpiazzandoli con palazzine prive di identità e colore. Ulan Bator si lasciava così alle spalle secoli di miti e leggende per soccombere alla triste pianificazione urbanistica sovietica.
Intorno alle case popolari hanno però continuato ad accamparsi migliaia di pastori, ancora legati alle antiche tradizioni nazionali. Le sterminate distese di ger si ammassano ai limiti della città e si insinuano a tratti fino al centro cittadino, rendendo di fatto Ulan Bator un ambiente duplice, sia fisso che mobile, sia moderno che antico, mal concepito e non integrato.
Negli ultimi decenni sono poi sorti grattacieli moderni, come il Blue Sky, una struttura alberghiera a forma di vela, che richiama la modernità o almeno tende ad essa, rendendo di fatto Ulan Bator una città tre volte schizofrenica.
A garantire il titolo di “capitale più brutta del mondo”, ci sono poi le molte facciate decorate con neon dai colori sgargianti, che si accendono ad intermittenza come luci di un albero di Natale accroccato. Un elemento kitsch, quest’ultimo, facilmente riconoscibile e riconducibile non tanto alla Russia, ma alla Cina.
Niente affatto. Mentre percorro la distanza dall’aeroporto all’albergo a bordo di un UAZ, il mitico e indistruttibile pulmino russo, Ulan Bator mi appare simile a tutte le altre città del mondo. Soffre né più né meno degli stessi malanni: il traffico che congestiona le strade a tutte le ore del giorno e della notte; distese di palazzine popolari che si susseguono giustapponendosi l’una contro l’altra, un po’ scontrandosi un po’ inseguendosi; i loghi delle multinazionali che colorano di toni vivaci quartieri altrimenti grigi e rassegnati. Tutto sommato, le sigle di KFC, IKEA e Burger King donano ad Ulan Bator un’aria familiare.
Nulla di terribile, quindi, nulla che non abbia già visto altrove e che non sia anche la normalità di molte città occidentali.
Ulan Bator mi sorprende invece per la sua pulizia: nessuna immondizia ai cigli della strada, nessuna discarica maleodorante a cielo aperto, nessun falò improvvisato con cui smaltire l’indifferenziato. Sembra di non essere nemmeno in Asia.
Ulan Bator è forse una città poco appariscente, non ha uno skyline riconoscibile da ammirare da un romantico punto panoramico, ma di certo non è una città desolata.
Passeggiando per le sue strade ci si sente al sicuro e l’atmosfera è serena, rilassata, cosmopolita. I centri commerciali sono fornitissimi e i karaoke che spuntano come funghi raccontano di una popolazione che ama la musica, il canto e le serate in compagnia.
Ho visitato città di gran lunga più brutte, peggio concepite e assai più pericolose.
Dirò di più: a dispetto di altre capitali che ho visitato, ad Ulan Bator sento che potrei decisamente vivere, se non fosse per il freddo, un freddo micidiale che ha un effetto devastante sull’inquinamento.
Per via dell’altitidune, della latitudine e della distanza dal mare, Ulan Bator è classificata come la capitale più fredda del mondo. Da ottobre ad aprile, con temperature che scendono fino a -40 gradi, il freddo fa battere i denti e i giacimenti di carbone mongoli vengono presi d’assalto, con conseguenze disastrose per l’ambiente. Complici i ristagni d’aria della vallata, la città si copre infatti di una fitta coltre di smog. Nelle giornate più drammatiche, le emissioni di scarto oscurano il sole in pieno giorno.
Nel 2018 la qualità dell’aria risultava peggiore di quella di Pechino e il New York Times assegnava ad Ulan Bator il terzo posto ( dopo Riad e Nuova Delhi) come città più inquinata del mondo. Fortunatamente la situazione migliora in primavera, quando il consumo di carbone si riduce drasticamente e i venti spazzano via ogni residuo di inquinamento.
“Il problema va affrontato alla radice”, mi spiega la mia guida, Sanjaa, durante la mia prima cena in città. “Le periferie di Ulan Bator sono affollate da ger tradizionali, dove i pastori nomadi cercano protezione dall’inverno e si rifugiano gli allevatori falliti che ora vivono di sussidi statali. Questi ultimi non hanno nessuna prospettiva di migliorare la propria vita. Pur ospitando meno della metà della popolazione cittadina, le ger sono responsabili di oltre l’80% dei gas nocivi che infestano gli inverni di Ulan Bator”.
Una soluzione sembra essere a portata di mano: il governo ha messo a disposizione dei nomadi una grande quantità di immobili costruiti in epoca sovietica e al momento disabitati. Ma la proposta è stata accolta con scarso entusiasmo.
“Gli abitanti delle ger sono per lo più disoccupati. Non pagano l’affitto del suolo che occupano con le loro ger ed hanno buoni pasto e assistenza sanitaria gratuita. Possono tirare a campare senza troppe preoccupazioni. Se accettassero di trasferirsi in appartamento, dovrebbero pagare l’affitto e questo li obbligherebbe a cercarsi un lavoro. Ma sono pigri, non vogliono cambiare”.
Con una onestà intellettuale che posso solo ammirare, Sanjaa mi offre una ricostruzione storica puntuale dei motivi di questo atteggiamento indolente così diffuso in Mongolia.
“La transizione è stata troppo rapida, i mongoli sono stati avventati. Quando abbiamo dichiarato l’indipendenza dai russi, non avevamo nessuna competenza per gestire il paese. Fino a quel momento tutto era stato nelle mani dei russi: le infrastrutture, le industrie, gli allevamenti. Cacciati i russi, non rimaneva nessuno in grado di gestire il paese. È stato un disastro. Il caos che ne scaturì produsse una crisi economica e una carestia senza precedenti. Ci abbiamo messo decenni per riprenderci, per formare personale preparato e sviluppare le giuste strategie.
Il primo governo nazionale mongolo tentò di seguire la strada comunista tracciata dai sovietici. Nel settore dell’allevamento, ad esempio, i sovietici avevano espropriato il bestiame agli allevatori, per ridistribuirlo tra tutti in parti uguali. Latte, formaggio, carne, lana e pellame – tutto andava consegnato al governo centrale in cambio di uno stipendio fisso. Lo spirito di impresa individuale venne così mortificato e distrutto; le capacità sviluppate dai mongoli in millenni di pastorizia vennero umiliate e andarono perdute.
Il primo governo mongolo decise di riconsegnare il bestiame agli allevatori, ridistribuendolo tra loro in parti uguali. Molti allevatori però si sono dimostrati incapaci di prendersene cura e i loro animali morirono. Da qui la disoccupazione, la mancanza di una prospettiva di vita, il rifugiarsi ai confini della città”.
Sanjaa rivolge parole aspre ai disoccupati mongoli. “Tra sussidi ed espedienti vari, a fine mese riescono a racimolare la metà dello stipendio di un contribuente medio, quindi non hanno nessuna motivazione a cambiare stile di vita, ma oggi il loro numero è tale da costituire un serio problema per i bilanci dello stato. Abolire i sussidi statali è l’unico modo per costringerli a lavorare, perché la fame è l’unico sprone realmente efficace. Non si tratta di crudeltà, ma della sola via percorribile non solo per la società mongola ma anche per l’ambiente. Se queste persone accettassero di tornare a lavorare e di vivere negli appartamenti offerti loro, le emissioni inquinanti crollerebbero immediatamente”.
Con la sua disponibilità e franchezza, Sanjaa mi offre uno spaccato della vita in Mongolia che non ha prezzo. La sua presenza arricchisce il mio soggiorno qui oltre ogni aspettativa. Anche perché parla un ottimo inglese, quindi riesce ad articolare i suoi pensieri in maniera chiara ed esaustiva. Rispondo con altrettanta franchezza che abbiamo un problema simile in Italia. Si chiama Reddito di Cittadinanza e prevede sussidi statali per chi si trova in stato di disoccupazione. Il dibattito politico in merito è molto acceso da anni, perché è difficile trovare un equilibrio tra il tendere una mano a chi è in difficoltà e il rischio di finire alla mercé di truffatori e sfruttatori.
La mattina successiva iniziamo la visita dei siti storici della città. Mentre li raggiungiamo in macchina e ci facciamo strada nel traffico cittadino, noto numerose ciminiere che sbuffano copiose nuvole di vapore. Sono le centrali elettriche alimentate a carbone, che lavorano senza sosta per riscaldare gli abitanti della città. Le osservo non più come un estraneo, ma con la benevolenza di un vecchio amico.
Sono finalmente pronto a scoprire cosa vedere ad Ulan Bator.
Ho cercato Ulan Bator in rete per due motivi. Sicuramente il primo è stato per il nome; strano, divertente, insolito, soprattutto per la nostra lingua che prevede parole che finiscono con vocali. Immaginarsi una città con un nome così, non so, mi dà un che di Gianni Rodari, di Italo Calvino. L’uno per chissà quale filastrocca o storia ci avrebbe inventato sopra, l’altro per l’associazione ad una delle sue città invisibili.
Il secondo motivo, e il più vero, è stato il bellissimo film che ho visto in agosto in un cinema all’aperto della mia piccola città.
Beh, mi ha stregato la storia, tenerissima e anche un pochino triste, ma soprattutto mi ha affascinato la fotografia del paesaggio, strepitoso, il racconto della vita dei nomadi pastori e dei nomadi contadini. Lo sguardo sulla loro cultura. Spostarsi da una tenda all’altra sotto a un cielo infinito.
In quel film Ulan Bator è solo chiamata ‘la città’, ‘la capitale’ e davvero mi era rimasta la curiosità di scoprire qualcosa di più. Ringrazio la piacevole lettura del racconto di Andrea. E’ stato un buon inizio per invitarmi a cercare qualcos’altro.
Roma ha una popolazione di 2,8 mln, non 3,8. Bel racconto, comunque. 😉
“A partire dal 1940, i sovietici iniziarono ad edificare la città in tipico stile russo, distruggendo i monasteri e gli edifici preesistenti e rimpiazzandoli con palazzine prive di identità e colore. ” Seriamente?
Potrebbe essere il caso di non spacciare il proprio pregiudizio per dato di fatto 🙂
È un dato di fatto. È storia. Nessun pregiudizio. Per 65 anni la dittatura comunista si è adoperata con ogni mezzo, compresa la distruzione di 750 monasteri e l’assassinio di oltre 3.000 monaci, per cancellare ogni traccia di religiosità dall’animo della popolazione mongola. Ha fonti storiche che smentiscono? In tal caso, bisogna andare al museo di Ulan Bator e informarli, perché ho preso da loro le informazioni. 😁
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8 Comments
Grazie della condivisione Andrea. Con scrittura scorrevole e non ruffiana hai reso perfettamente le contraddizioni di una città che è sì fredda e inquinata ma la più brutta proprio no, basta farsi un giro in Asia per scoprire che Ulan Bator ha quasi una sua grazia, ben nascosta ma c’è. Attendo il seguito!
Le tue parole e le tue fotografie ci insegniano che si può e si deve “andare oltre” ..a non fermarci al primo sguardo .”
Bella lettura