L’India, a meno di odiarla al primo impatto, induce presto a questa esaltazione: fa sentire ognuno parte del creato. In India non ci sente mai soli, mai completamente separati dal resto. E qui sta il suo fascino. In India si è diversi che altrove. Si provano altre emozioni, si pensano altri pensieri.
– Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra
Varanasi ti strega. Con la sua vivace vita sui ghat, con le cremazioni del Manikarnika Ghat, con il continuo flusso di energia che attraversa la città e le sue strade sporche, animate, vitali.
Al calar della sera, come falene attratte dalle fiamme, ci si raduna nel Dasaswamedh Ghat per assistere alla cerimonia del Ganga Aarti, un maestoso rituale di ringraziamento nei confronti della dea del fiume, Ganga.
La prima volta che vi assisto, il rito stordisce talmente i miei sensi che ho l’impulso di allontanarmene. Capita spesso, in India, di sentirsi così sopraffatti da aver bisogno di una pausa. Gli odori intensi, i sapori forti delle pietanze, i modi diretti delle persone, tutto sembra aggredire le nostre difese personali, fisiche e psicologiche. Non si può chiedere privacy qui, dove ogni cosa, ogni persona sembra confondersi e mescolarsi con l’altra.
Ho dovuto assistere più volte al Ganga Aarti per comprendere la sua potenza mistica, la sua forza rigeneratrice.
Il rito si svolge al ritmo del bahjan, un canto induista cadenzato dal tintinnio di piccole campane. È officiato dai pandit, studiosi di sanscrito appartenenti alla casta dei bramini, su un palco di legno antistante le rive del Gange.
Alla cerimonia assiste tutta la collettività: i cittadini, i pellegrini giunti da ogni dove e i sadhu, i “santoni”, che per l’occasione abbandonano le loro pratiche ascetiche.
Dopo aver soffiato dentro una conchiglia, per eliminare tutte le negatività, i sacerdoti iniziano la loro danza: sventolano bastoncini di incenso, fanno ruotare candelabri e sollevano lanterne di fuoco.
I fedeli assistono con occhi pieni di fiducia e stupore, circondando il palco da ogni lato: siedono su panche e sedie nella piazza del ghat, ma si radunano anche sulle rive del Gange, gremendo le imbarcazioni che sostano lungo la riva. Molti riprendono la cerimonia con il cellulare per mostrarla, in diretta, ai familiari che non possono essere presenti.
Il Ganga Aarti dura circa 45 minuti, durante i quali l’aria si satura del profumo di sandalo e il suono delle campanelle si fa via via più assordante.
Tra le file di sedie che ospitano i fedeli, si aggirano ragazzini con delle grosse ceste tra le braccia. “Prendine una”, mi dice una giovane passandomi accanto. “No, grazie”, le rispondo, non sapendo cosa fare del suo regalo. “Non voglio soldi”, mi rimprovera seccata. “Prendine una e accendi la candela. Lasciala andare nel fiume. Porta fortuna”.
Prendo il cestino votivo tra le mani. “Puoi dare un’offerta, se vuoi”. Cerco qualche spicciolo nel marsupio, sentendomi ormai obbligato. “Non ora, dopo. Adesso lascia la candela sul fiume”, mi ordina fuggendo via.
Accendo la candela e la lascio alle onde del fiume, come fanno tanti altri fedeli. Il Gange riluce di centinaia di fiammelle che simboleggiano altrettanti sogni. Affidandoli alla madre Ganga, gli induisti le chiedono di prendersene cura. Più la corrente li porta al largo, più è probabile che si realizzino. Guardo la mia fiammella allontanarsi con un po’ di malinconia e torno vicino al palco. La danza pirotecnica dei sacerdoti è ipnotica.
Un uomo si avvicina con gli occhi pieni di gioia e si offre di disegnarmi il tilak, o tika, sulla fronte. Cerco di rifiutare ma lui insiste ed ho paura di offenderlo. Agli induisti non sembra interessare se seguo o meno il loro credo. Sono così convinti dei benefici delle loro pratiche che mi invitano di continuo a prenderne parte. “Vedrai, ti porterà fortuna”, commenta mentre mi disegna tre strisce color avorio sulla fronte. Lascio una piccola offerta e mi allontano sorridendo.
Quando la cerimonia volge al termine, i sacerdoti abbandonano il palco. Gli induisti credono che, durante il rito, il fuoco delle lanterne si tramuti nel corpo stesso della dea Ganga.
Per questo motivo, la fiamma viene porta ai fedeli e questi vi pongono sopra le mani per raccoglierne il calore. Alcuni officianti distribuiscono delle caramelle di zucchero che tutti cercano di ottenere affannosamente, tendendo le braccia. Chiedo di cosa si tratti. “Prasaad! Porta fortuna!“, mi risponde uno dei cerimonieri porgendomele.
I fedeli le mettono in bocca con la stessa sacralità che noi cristiani riserviamo all’ostia.
Tra la folla, scorgo di nuovo la ragazzina che mi ha dato la candela votiva. La raggiungo e le porgo la mia offerta. La mette nella cesta, insieme alle altre, senza prestarmi attenzione. Come a voler ribadire che non mi sta chiedendo dei soldi, cosa che fanno spesso i finti santoni e i dalit per strada; no, deve essere chiaro che sono io a voler lasciare un’offerta. E devo dire che è così.
Perché trascorrere una settimana a Varanasi significa esserne imbevuti, impregnati. Smetti di chiederti se ti piace o meno ciò che vedi e inizi semplicemente a sentirtene parte. E, quando la lasci, non vedi l’ora di tornarci, perché nell’impossibile tentativo di comprenderla hai compreso meglio te stesso.
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1 Comment
Bellissima commovente mitica cerimonia