Un suggestivo trekking nel parco nazionale di Periyar, la più famosa riserva naturale del sud indiano. La guardia forestale mi conduce nelle foreste di teak, alla ricerca di scimmie, licaoni e famiglie di elefanti. Un’avventura ai confini della civiltà umana!
Thekkady è uno di quei nomi che si fatica a memorizzare, anche dopo esserci stati. Eppure, questa piccola cittadina sull’altopiano dei Ghati mi regala una delle giornate più intense e ricche di stimoli del mio viaggio in Kerala e Tamil Nadu.
A Thekkady si viene per immergersi, armati di binocolo, nel cuore del Parco Nazionale di Periyar, la più famosa riserva di fauna selvatica dell’India del sud. Ma è anche un luogo fantastico per assistere ad uno spettacolo di danza Katakhali, frequentare un corso di cucina tipica e scoprire l’adrenalinica arte marziale del Kalaripayattu. Per giunta, il cibo nei ristoranti è davvero ottimo e il clima resta fresco per tutta l’estate. Accorrete gente!
Sul versante occidentale dei monti Ghati, a pochi chilometri da Munnar e dalle sue vaste piantagioni di tè, sorge il Parco Nazionale di Periyar. Si tratta della più famosa riserva del sud indiano, estesa oltre 900 kmq tra i 1.400 e i 2.000 metri di altitudine. L’area è bagnata da diversi fiumi, ospita un lago artificiale ed è ombreggiata da rigogliose foreste di teak e di eucalipto inframezzate da splendide praterie. Qui si possono ammirare 140 specie di orchidee e avvistare elefanti, tigri del bengala, scimmie, bisonti, cinghiali, licaoni e tantissimi uccelli tropicali.
L’origine del parco risale al 1939, quando l’area fu dichiarata riserva di caccia privata per fermare l’avanzata delle piantagioni di tè. Dopo il 1950, il governo indiano ne ha fatto un santuario della fauna selvatica, mentre dal 1982 la sua area più interna è stata elevata al rango di parco nazionale e resa inaccessibile ai turisti.
Gli indiani si riferiscono alla riserva chiamandola indifferentemente Periyar (il fiume che la attraversa), Thekkady (il villaggio che sorge nel cuore del parco) o Kumily (la città più vicina). La cosa può confondere, quindi tenetelo a mente.
Prenotare una visita guidata al Parco Nazionale di Periyar è facile come bere un bicchier d’acqua. È sufficiente chiedere alla hall del vostro albergo, che vi fornirà un coloratissimo depliant con foto di animali esotici e un ricco elenco di tour guidati personalizzati: si può salire a bordo di una jeep e perlustrare i viali del parco, gustarsi un trekking di un paio d’ore ed esplorare l’area a piedi o provare il brivido di inoltrarsi nella foresta di notte.
Qualsiasi sia l’opzione prescelta, non è possibile penetrare nella parte più interna della riserva, dove gli animali vivono allo stato brado e senza nessun contatto con gli esseri umani, né andarsene in giro senza la scorta di una guida preparata ed esperta.
E forse proprio questo è l’aspetto che ha reso davvero unica la mia visita alla riserva di Periyar: il carisma, la preparazione e la capacità attoriale della guida che mi ha accompagnato ha trasformato un’esperienza poco autentica e decisamente turistica in un continuo sogno ad occhi aperti.
La biglietteria è sulla sponda civilizzata del fiume: lo attraverso con l’aiuto di una zattera di grosse canne di bambù, che guada il quieto fiume e mi traghetta dall’altra parte, dove mi aspetta la natura incontaminata e selvaggia.
“Please be quiet, it is very dangerous here”, sussurra John, la mia valorosa guida. “Fate attenzione a dove mettete i piedi, potreste venir morsi da un serpente. Il veleno dei cobra indiani è letale. E non allontanatevi, restatemi vicino. Le tigri e gli elefanti potrebbero attaccarvi, specialmente se si avvicinano al fiume per dissetarsi con i loro cuccioli. Ma saremo al sicuro se rimarremo in gruppo”.
Lo sguardo serio e melodrammatico di John produce su di me due effetti contrapposti: mi diverte e terrorizza allo stesso tempo.
“Se fosse così pericoloso, non credo che saremmo qui”, cerco di sdrammatizzare. Eppure tutti membri del gruppo si stringono stretti stretti intorno a John, come pulcini spelacchiati in un nido.
Tra un racconto di elefanti che caricano le jeep delle guardie forestali e istruzioni dettagliate di come sopravvivere alle tigri affamate, John ci illustra la flora del posto: alberi di ebano, funghi parassiti, mille tipi di orchidee. Poi avvistiamo una sequenza di piccoli animali: un gallo selvatico, un tucano dal becco colorato, scimmie nere appollaiate come ombre sulle cime degli alberi di teak.
Nulla di entusiasmante, insomma.
“Vedete questo?” John ci indica un teschio di bisonte elegantemente poggiato su un tronco d’albero lungo il sentiero battuto. “È ciò che resta di un maschio adulto”. Testa e corna raggiungono l’altezza di 1,50 m.
La suggestione inizialmente creata dal nostro istrionico ospite inizia a scemare in noia e distrazione, ed è allora che John mette un po’ di carne sul fuoco. Perlustra i dintorni con il suo binocolo, individua qualcosa e si volta verso di noi, gli occhi vitrei di chi ha appena visto un fantasma.
“Fate silenzio e seguitemi. C’è un licaone lungo il fiume, non se ne vedono mai in questa zona del parco”.
Corriamo fino alla radura con movimenti goffi e disarticolati, cercando di non calpestare arbusti o erba secca. Il licaone potrebbe scappare via al minimo rumore. Finalmente il bosco si apre su uno splendido specchio d’acqua… ed eccolo, là, il licaone. “Sensational!”, esclama John con grande soddisfazione. “Non avviciniamoci oltre, il licaone è un animale aggressivo, e i suoi morsi feroci. Siete davvero fortunati ad essere venuti oggi!”
Sarà, ma a me sembra solo una via di mezzo tra un cane e una volpe.
La delusione collettiva è di nuovo dietro l’angolo quando John riceve una chiamata al walkie-talkie. “No way!”, sussurra, “Unbelievable! Yes, we are just a few minutes away.”
Gli occhi illuminati dal fuoco della passione, John ci informa che è stata avvistata una famiglia di elefanti nel cuore della radura. Siamo a pochi minuti da lì, dobbiamo correre veloci se non vogliamo perderci lo spettacolo. “Be careful. It is very ve-ry ve-ry dangerous!”
John si volta di scatto e inizia a correre, veloce come il vento. Questa volta si percepisce che corre per se stesso. Non vuole mostrarci gli elefanti, vuole vederli lui stesso. Non c’è niente di meglio che rincorrere una guardia forestale indiana per capire di essere totalmente fuori allenamento: parto con grande slancio, immaginandomi forte e maschio come Indiana Jones, ma ogni minuto che passa la faccia si trasforma in un bollitore a pressione, con il sudore che imperla la fronte, si mescola alla protezione solare e scivola negli occhi come fuoco liquido. Scommetto che John non sta sudando, e di sicuro non ha la protezione 50 sul viso. In ogni caso, riesco a tenere il passo e arriviamo insieme a un centinaio di metri dagli elefanti. La mamma e i suoi cuccioli passeggiano nella radura, strappando pigramente le foglie dai rami degli alberi.
John ci dice che non possiamo avvicinarci oltre. Poi dà uno sguardo alla mia macchina fotografica, lo zoom 70-200 non passa inosservato. “Sei un fotografo professionista?”, chiede.“Sì, e senza la macchina fotografica corro molto meglio”. Mento sapendo di mentire. “Seguimi, ci avvicineremo ancora di qualche metro”, sussura. “But-p-lease-be-care-ful!”
Non c’è bisogno di dirmi di stare attento, un ipocondriaco della generazione X sta sempre attento. John mi prende per mano e mi porta a pochi metri dalla più bella famiglia di elefanti di tutta l’India. Almeno così intendo ricordarla. Non fanno granché, passeggiano pigramente strappando qua e là un po’ d’erba.
“Hai fatto abbastanza foto?”, mi chiede John dopo qualche minuto. “Sì, grazie.”
“Siamo stati fortunati oggi, molto fortunati. Adesso togliamo il disturbo, questi elefanti sono già stati molto pazienti con noi.”
“Pensi che vedremo delle tigri?”
“Ne sono rimasti circa 40 esemplari e vivono nella zona centrale, dove non è permesso andare”.
John ci riconduce alla zattera, attraversiamo il fiume e torniamo alla civiltà umana. Lo osservo una ultima volta: il trekking al parco di Periyar non è certo paragonabile ad un safari in Botswana. Eppure l’incanto creato dal carisma di John e la passione che mette nel suo lavoro sono valsi il prezzo del biglietto.
Sono felice di sapere che persone come lui si prendono cura di questo incredibile pezzo di natura e solo ora capisco davvero quale sia lo scopo del suo lavoro: non è proteggere i visitatori dagli animali selvatici, come si potrebbe pensare. Il suo lavoro consiste nel fare l’esatto contrario.