Ho ascoltato tanti dibattiti di geopolitica nelle ultime settimane, ho ricostruito i percorsi tortuosi e fallimentari delle diplomazie internazionali; ho cercato di farmi una idea di cosa stesse accadendo e un’opinione razionale sul da farsi. Ma è stato solo ascoltando le parole di Gabriella Tupini, una psicoterapeuta romana, che ho capito da che parte stare. E che un vero viaggiatore non ha nemici.
La nostra vita negli ultimi due anni sembra passare da un incubo all’altro. Prima il covid, ora la guerra. Pericoli reali capaci di mettere a rischio la nostra libertà, i progetti, i viaggi, la vita stessa.
In queste ultime settimane, in particolare, siamo tutti vittime di una fortissima pressione a prendere posizione. La narrazione dei media e le immagini della guerra con la loro insopportabile violenza ci impongono di individuare un mostro, combatterlo, annientarlo. Solo così potremo tornare ad una sensazione di sicurezza, pace, benessere.
E allora chi altri è il mostro se non Putin? Chi mai potrebbe dubitarne? Non è forse lui che ha armato il suo popolo con falsi pretesti? ( D’altronde ci sono mai state guerre senza falsi pretesti?) E non è Putin che per primo ha varcato i confini di un paese vicino, portando distruzione, morte, orrore?
Allo stesso modo, siamo spinti a stringerci ai nostri alleati, alle democrazie occidentali, al fine di contrastare insieme il male in atto. Paesi che fino a ieri guardavamo con diffidenza e con i quali entravamo in contrasto su questioni economiche, dazi e scelte politiche, oggi ci vengono dipinti come i salvatori dei più alti ideali. Al loro fianco, stiamo cercando di difendere democrazia, libertà, diritti civili. Non possiamo permettere che Putin li cancelli con un colpo di spugna dalla faccia della terra.
In questa rilettura dell’altro e di noi stessi, siamo ben disposti a rimuovere dalla memoria i nostri errori, le nostre responsabilità, tutto ciò che ci accomuna al mostro più di quanto pensiamo. Nessuno sembra ricordare le guerre ingiuste che noi stessi abbiamo iniziato contro altri popoli, in tempi lontani e recenti, le menzogne utilizzate per giustificare i nostri interessi economici in quei luoghi (dove erano le armi di distruzioni di massa in Iraq?). Vediamo l’ipocrisia russa nel chiamare la guerra in Ukraina “missione militare speciale”, ma pochi giornalisti ricordano la violenza delle nostre “missioni di pace”.
Con questo non intendo accusarci di essere peggiori dei russi, né che la guerra in Ukraina abbia delle motivazioni condivisibili. La mia non vuole in nessun modo essere una analisi geopolitica, né una distribuzione delle responsabilità che hanno condotto il mondo sull’orlo di una guerra mondiale.
Me ne guardo bene.
Voglio invece spiegare perché chi ha viaggiato nel mondo non può e non deve cadere nell’errore di distogliere lo sguardo da cosa è davvero importante: la vita delle persone. E l’unico modo per farlo è imparare a considerarle amiche, familiari, care. Niente come viaggiare può insegnarcelo.
Quando viaggiamo siamo fragili, esposti. Abbiamo con noi solo un bagaglio, l’essenziale per vestirci e lavarci. Lontani dai nostri cari, dalla comodità delle nostre case, sradicati dalle nostre abitudini, facciamo affidamento sull’accoglienza del paese che visitiamo, sull’ospitalità delle persone che lo abitano, sulla generosità di chi ci indica la strada. È solo per merito delle cure che ci vengono riservate che torniamo a casa sani e salvi, con il cuore colmo di gratitudine.
Esplorare paesi sconosciuti ci permette di scoprire che, anche dove ci sono dittature, dove i diritti basilari vengono negati, il male non è davvero di casa. Ci sono invece, come da noi, persone che lavorano onestamente, famiglie che si amano, amici che si sostengono. In viaggio incontreremo queste persone, impareremo a conoscere i loro usi, passeremo del tempo insieme e ci racconteremo le nostre storie. Ciò che ci era estraneo diventa familiare. Si crea un legame.
Tornati a casa, ci teniamo in contatto, ci scambiamo foto e messaggi. Ormai ciò che accade a loro riguarda anche noi.
Si farebbero forse meno guerre se tutti viaggiassero di più. Perché nella confusione e nell’angoscia che crea in tutti la notizia della guerra, non avremmo dubbi su quale sia l’unica priorità. Salvare le vite umane, ad ogni costo, con ogni mezzo possibile.
Alla stessa conclusione giunge il bellissimo discorso della psicoterapeuta romana Gabriella Tupini, ed è stato interessante per me seguire il suo ragionamento, che non parte dal viaggio nel mondo, ma dal viaggio dentro di sé. D’altronde, ogni viaggio nel mondo esterno non è completo senza una rielaborazione della propria interiorità.
Ne sintetizzo i punti fondamentali, per chi ha voglia di approfondire. Qui il link al video su youtube.
La riflessione di Gabriella Tupini parte da un carteggio tra Freud e Einsten su tale questione: “È possibile eradicare il desiderio della guerra dall’umanità?”
Freud espresse idee piuttosto pessimiste. La spinta all’aggressività è insita nell’uomo e si struttura già all’interno del rapporto tra madre e figlio: tutte le volte che il bambino non viene appagato dalla madre, vuoi perché non la sente sintonizzata sui suoi bisogni, vuoi perché riceve rimproveri o subisce una punizione, viene invaso da angoscia, paura, terrore. Non può allontanarsi da lei, ne morirebbe, né può sopportare questo suo dualismo: per continuare a fidarsi di lei, dunque, il bambino opera una scissione. La mamma che lo ama e quella che lo odia non sono la stessa persona: accade qualcosa, qualche volta, che le porta a scambiarsi l’una con l’altra, ma non sono la stessa persona.
Tutti gli aspetti negativi della madre vengono quindi raggruppati e spostati altrove, su una entità cattiva, un nemico, qualcuno di potente che non lo ama, nega i suoi bisogni e ne mette al rischio la sopravvivenza stessa. Accanto alla madre amorevole, il bambino elabora una entità opposta, scissa da questa, su cui riversa tutti i suoi aspetti orribili.
È così che l’essere umano arriva a concepire la dualità di bene e male, di buono e cattivo, di amico e nemico. Anche quando cresciamo, continuiamo ad interpretare il mondo esterno in base a questi parametri. Chi condivide i nostri interessi, rispecchia le nostre idee, ci accoglie con benevolenza è buono; chi non lo fa non merita la nostra simpatia, è pericoloso, è cattivo.
Viviamo quindi proiettando sul mondo le nostre esperienze infantili: amiamo chi ci ricorda la mamma buona, fuggiamo o combattiamo chi ci ricorda la mamma cattiva. Essere consapevoli di come agiscono le proiezioni è una strada faticosa, ma porta all’equilibrio.
Purtroppo, poche persone hanno capito quanto sia importante risolvere i propri conflitti interiori per non riversarli nel mondo esteriore. La maggior parte delle persone ha rimosso i propri traumi infantili e ogni volta che questi si attivano, non sapendoli analizzare e mitigare nel proprio animo, li proietta sul mondo esterno (il vicino di casa, il datore di lavoro, l’autorità in generale) e poi li agisce, in una catena infinita di violenza e dolore.
Chi vive nella rimozione dei propri traumi infantili è dunque una pistola carica, pronta a sparare. Ha ben chiaro cosa significhi essere inascoltato, umiliato e oppresso. Non individua il genitore come responsabile di questi sentimenti: ha rimosso il ricordo dei rimproveri e delle punizioni e, se li ricorda, li giustifica con gli occhi dell’adulto che è ora. “Sono stato punito, ma a ragione”, si dice, “e le punizioni mi hanno raddrizzato, perché ero un malandrino”.
Lontano dal criticare il proprio genitore per le sue mancanze, per i suoi limiti, è però prontissimo a non permettere più a nessuno di farlo sentire in quel modo. Chiunque passi sul suo cammino deve portargli rispetto, così come i suoi genitori esigevano rispetto, e deve adattarsi ai suoi bisogni, così come da bambino si è adattato a quelli dei suoi genitori. Questa identificazione con il carnefice è fondamentale per capire la radice della violenza: non potendosi identificare con la vittima (perché non osa criticare i genitori), sfoga le sue angosce agendo da carnefice.
A volte, nella storia, capitano eventi conflittuali capaci di attivare le proiezioni di un popolo intero. La guerra in Ukraina, ad esempio, è un trigger potentissimo, capace di generare angosce collettive profonde. Ecco allora che, laddove in situazioni di vita normale, le persone si limitano a proiettare il nemico sul vicino di casa, sul partito politico avversario, sulla squadra di calcio antagonista, adesso tutti insieme si coalizzano contro il comune nemico russo.
Inizia così un processo di “elaborazione del nemico”, durante il quale individuiamo il responsabile delle nostre ansie e a lui attribuiamo la volontà di toglierci il nostro benessere, il nostro stile di vita, la nostra libertà. Non ci resta che armarci per distruggerlo, sordi ad ogni risoluzione che non sia il suo annientamento.
Questo non significa che non ci siano torti e ragioni nei conflitti militari, ma le responsabilità del nemico vengono ingigantite dalla nostra posizione interiore. Egli diventa la causa di tutti i nostri mali, smette di essere un altro essere umano e diventa “un porco”, “un macellaio”, “un topo di fogna”. Dopo averne ingigantito le colpe, passiamo a disumanizzarlo. E così ogni azione atta a farlo soffrire, a piegarlo, ad annientarlo trova una facile giustificazione. D’altronde, non è a causa sua che soffriamo? Non è a causa sua che abbiamo sempre sofferto?
Le persone incapaci di guardare i propri demoni, le vittime della rimozione, sono le prime a darsi da fare. Possono finalmente agire la loro violenza, che fino ad allora era rimasta contenuta dalle norme sociali. Chi si era solo limitato a qualche abuso di potere contro i sottoposti, a qualche crudeltà verso la famiglia, può in guerra dare sfogo a tutto il suo odio, a tutta la sua sete di rivalsa. Può finalmente uccidere fisicamente i nemici che hanno sempre tormentato i suoi incubi notturni.
Ovviamente non tutti coloro che hanno sofferto durante l’infanzia abbracciano il ruolo del carnefice. Non nasciamo tutti uguali: ci sono persone che si schierano dalla parte degli oppressi, proprio perché hanno conosciuto l’oppressione. Ma nessuno, in guerra, neanche questi ultimi, riescono ad essere obiettivi. L’elaborazione del nemico è un meccanismo potentissimo, capace di attivare in tutti le proiezioni degli irrisolti. Vedere al di là delle fazioni è molto difficile, essere obiettivi è una illusione, perché proiettiamo costantemente su tutto e tutti.
Secondo Gabriella Tupini non è così rilevante stabilire chi sia il nemico. Alcuni pensano sia Putin, altri pensano sia la Nato. “La verità è che quando parliamo di guerra non ci identifichiamo mai con le persone che la subiscono. È un fatto importantissimo, per questo parliamo di guerra con leggerezza. Immaginiamo di essere usciti a fare la spesa e di tornare a casa per trovarla distrutta. Abbiamo perso tutto. Siamo in mezzo alla strada con quello che abbiamo addosso. Come ci sentiremmo? Credo disperati. Riusciamo a provare quello che provano loro? A dire che questa guerra è importante perché è una guerra per la libertà? Se voi foste lì, di fronte alla vostra casa distrutta o se foste dentro casa mentre la stanno bombardando, la pensereste così? Noi non vediamo il dramma degli altri. Vediamo i drammi, in genere, quando toccano a noi. Perché dell’altro non ci interessa niente. O perché è un nemico, o perché è lontano, non lo conosciamo. Non abbiamo questa capacità di identificarci.”
“La guerra è sempre terribile. Per capire una situazione bisogna innanzitutto mettersi nei panni di chi la subisce. Fare guerra significa mettere una popolazione in una situazione di terrore, paura, morte e lutto, costringerla quando va bene ad emigrare, riempirsi di morte, vedere morire i propri figli. Qualsiasi cosa deve evitare questo. Se vi mettete nei loro panni, pensate che qualsiasi cosa deve evitare questo. Se li vedete come estranei, come persone che non vi toccano, non avete capito cos’è la guerra. Non esiste la guerra giusta, nemmeno quella per difesa. Se pensiamo alle vittime, cerchiamo di fare qualsiasi cosa in nostro potere per non attaccare, discutere, trattare e anche arrendersi se occorre, perché ciò che conta è la popolazione, non sono i capi”.
Gabriella Tupini giunge dunque ad una visione di tipo pacifista, ipotizzando, in condizioni estreme, una resa senza condizioni. La sua è una posizione minoritaria: oggi il pacifismo è visto come un inutile gioiello di cui fa sfoggio l’intellettuale da salotto, e ne capisco il motivo.
È difficile accettare che arrendersi sia la soluzione di fronte alla follia di un dittatore, e forse non sono pronto ad abbracciare questo punto di vista. Continuo a pensare che chi subisce un attacco abbia il diritto di difendersi; arrendersi senza combattere non mette al riparo dalla violenza dell’aggressore. Forse limita i danni sul breve periodo ma è pur sempre un cedere il controllo delle proprie terre, della propria cultura, delle risorse, delle vite dei connazionali. Significa consegnare le chiavi di casa propria, dando all’invasore il potere di farne ciò che meglio crede.
L’Afghanistan è di recente tornato sotto il controllo dei talebani: sono ripartiti gli stermini degli avversari politici, le feroci violenze contro i civili; è stato di nuovo messo il giogo sul collo delle donne, private dei più basilari diritti civili. Su tutto prevale la follia della Sharia. Sul lungo periodo, dunque, come si possono difendere quelle vite salvate grazie ad una resa immediata?
Ecco, è questo il limite dell’approccio pacifista. Eppure non mi sento di dire che sia un atteggiamento più dannoso di altri. Anzi. Un viaggiatore, uno psicologo e un pacifista concordano su un aspetto fondamentale: troppo poco pesa ancora sulla bilancia il valore della vita umana.
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3 Comments
Un interessante articolo, che scava sulle motivazioni profonde e inconsce di alcuni comportamenti aggressivi e violenti e belligeranti. Viaggiare e immergersi in altro e altri per capire, capirsi e forse guarire quell’antica ferita affettiva, credo necessiti però, di una consapevolezza e volontà precedenti al viaggio… Una buona psico-analisi, una grande sofferenza e una terapia a base anche di viaggi in mondi sconosciuti possono ‘guarire’ chi desidera farlo. Forse.
In Afghanistan al potere non c’è l’isis ma i Taliban, e la differenza non è da poco. Certo integralisti entrambi .