Intorno ai roghi vediamo accucciati molti indiani, coi loro soliti stracci. Nessuno piange, nessuno è triste, nessuno si dà da fare per attizzare il fuoco: tutti pare aspettino che il rogo finisca, senza impazienza.
…Così, confortati dal tepore, sogguardiamo più da vicino quei poveri morti che bruciano senza dar fastidio a nessuno. Mai, in nessun posto, in nessun’ora, in nessun atto, di tutto il nostro soggiorno indiano, abbiamo provato un così profondo senso di comunione, di tranquillità e, quasi, di gioia.
– Pierpaolo Pasolini, L’odore dell’India
L’Induismo è una delle religioni più antiche e complicate del mondo, basata su un corpo di credenze comuni ma privo di un testo di fede unico. I miti e le leggende induiste si sono moltiplicate e ramificate nel corso dei secoli in un dedalo intricatissimo.
Brahman, la divinità creatrice del tutto, si manifesta tanto in una trinità maschile, la Trimurti, quanto in una corrispondente trinità femminile, la Trivedi. A rendere le cose più complicate è il fatto che le divinità che compongono queste triadi si manifestino agli uomini con centinaia di avatar diversi.
Shiva, ad esempio, viene venerato con 108 diversi nomi ed è considerato tanto come il dio che protegge gli uomini quanto come il dio che distrugge il mondo.
Nell’induismo, la dualità creazione-distruzione viene superata in una visione del mondo che abbraccia entrambi gli aspetti come momenti essenziali della realtà delle cose. Non è infatti possibile nessuna creazione senza la distruzione della realtà precedente.
A Varanasi, questa commistione di elementi opposti mi sembra riscontrabile ovunque il mio occhio spazi, soprattutto nel Manikarnika Ghat, il più grande dei due ghat crematori della città. Qui è conservato un fuoco che arde da molti secoli. Ogni giorno, decine di pire vengono accese a partire da un tizzone di brace rimasto dalla cremazione precedente; risalgo con l’immaginazione al fuoco originario, acceso un millennio fa e ancora vivo, grazie ai defunti che lo hanno alimentato nel corso dei secoli.
Vi sono altri luoghi in India dove i morti vengono cremati lungo le rive del Gange; ma solo il Manikarnika Ghat, a Varanasi, è nel cuore della città. Gli altri forni crematori, per ragioni igieniche, sono posti in zone periferiche ma l’ansa del fiume dove sorge Manikarnika ha qualcosa di speciale.
Secondo le leggende induiste, infatti, qui Parnati, la moglie di Shiva, perse un orecchino. Visnu, incaricato di recuperarlo, scavò l’ansa del fiume e la riempì con il suo sudore. Secondo un’altra leggenda, invece, in questo luogo Visnu ha meditato per oltre 50.000 anni, durante i quali ha creato l’intero universo.
Inoltre, gli induisti credono che chi viene cremato a Varanasi può sottrarsi al ciclo delle reincarnazioni e questo rende Manikarnika un posto doppiamente speciale.
In città, c’è solo una via abbastanza larga da consentire le processioni funebri. Una volta giunti al fiume, i corpi dei defunti vengono immersi nell’acqua per essere purificati; poi, vengono posti sotto circa 3 quintali di legna e dati alle fiamme.
Ci sono diverse postazioni per allocare i cadaveri, e la loro vicinanza al Gange è determinata dalla casta di appartenenza. Solo i neonati o i baba, in quanto già puri, non vengono cremati ma adagiati lungo le rive del fiume e lasciati andare. Galleggeranno ovunque la corrente li porti e nutriranno i pesci del Gange.
Nelle strade adiacenti al ghat, i negozi vendono la legna necessaria per i riti funebri e i barbieri rasano le teste dei figli primogeniti dei defunti. Lasciano loro solo una piccola coda sulla nuca. Si tratta di un rito che simboleggia il lutto che stanno attraversando. Le donne non sono ammesse. In passato, alcune vedove si sono gettate tra le fiamme e da allora vengono tenute a distanza.
La prima volta che mi avvicino al Manikarnika Ghat lo faccio a bordo di una imbarcazione che costeggia le rive del fume. Tra la nebbia e il fumo delle pire, è difficile comprendere ciò che accade sul ghat. Dovrò tornarci a piedi.
Non è facile assistere alle cremazioni se si è dei turisti. Appena mi avvicino, infatti, vengo molestato da locali che mi intimano di riporre subito la macchina fotografica, per poi offrirsi di accompagnarmi personalmente fino alle pire.
Prima di partire, sono stato avvisato e so che si tratta di una trappola. I malcapitati visitatori che acconsentano a farsi guidare si troveranno, alla fine del tour, davanti ad una richiesta di denaro. “La legna per una pira costa caro. Per favore, lascia un contributo. Aiuterai le persone più povere, che non possono permettersi il funerale dei loro cari”. È tutto falso, ovviamente. Il denaro servirà solo a riempire le tasche del furbetto di turno.
Alcuni amici, che hanno visitato Varanasi prima di me, mi hanno raccontato di essere rimasti shockati alla vista dei cadaveri; io stesso non so come reagirò. Eppure, una volta arrivato sul ghat, non provo nient’altro che accettazione. Qui si squarcia il velo di ipocrisia che la nostra cultura ha gettato sulla morte.
In Europa, salute e malattia, vita e morte occupano spazi diversi, come fossero inconciliabili. A Varanasi, invece, le strade che portano agli alberghi lussuosi sono coperte di letame tanto quanto i vicoli bui dove i dalit dormono rannicchiati; le vetrine dei migliori ristoranti confinano con il Nepali Temple, a due passi dal ghat crematorio. Vita e morte occupano gli stessi spazi, rivelando una verità basilare dell’esistenza.
Ciò che nasce è destinato a morire; ciò che oggi stringiamo tra le mani e ci fa sentire sicuri, domani passerà a qualcun altro. Un proverbio indiano recita: “La vita è come un ponte: attraversala pure, ma non pensare di costruirci sopra la tua casa”.
Nel mio soggiorno a Varanasi, sono tornato più volte al Manikarnika Ghat. Ho addirittura contattato l’uomo che gestisce il forno sacro e ottenuto il permesso di scattare qualche fotografia.
Voglio credere che chi lavora alle cremazioni mi abbia accettato, perché l’ultimo giorno mi ha lasciato assistere da vicino, senza curarsi di me. Ho osservato l’attività del ghat per un periodo di tempo che non saprei quantificare. Sembrava che il tempo si fosse fermato.
E ho guardato le pire bruciare, mentre le mucche si scaldavano accanto al fuoco e i cani si rannicchiavano sulle ceneri dei fuochi del giorno prima, ormai spenti ma ancora tiepidi. Ho guardato giovani lavarsi i denti nelle stesse acque dove venivano bagnate le salme in attesa di essere cremate.
Qualcuno, nel momento del bisogno, urinava accucciato allontanandosi dagli altri giusto lo stretto necessario. E non ci ho visto niente di strano. Ho respirato il fumo che addensava l’aria, impregnava i capelli e i vestiti. E per la prima volta ho pensato che forse non è Varanasi ad essere assurda e surreale, ma il resto del mondo.
Hai avuto il coraggio di fare quello che io qualche anno fa non ho avuto il coraggio di fare, visitare Varanasi e i Ghat. Nonostante sia totalmente convinto che la morte non è altro che un aspetto della vita, è la forma più forte, cruda e rapida dell’impermanenza che tutto pervade, non ho avuto la forza di affrontare questa realtà. Condivido con te che assurdo e surreale è il resto del mondo e non Varanasi. La nostra cultura occidentale è convinta che nascondendo il fenomeno della morte, invece di approfondirlo, si possa evitarlo o perlomeno allontanarlo, ma ovviamente arriverà lo stesso e con maggior crudezza proprio perchè lo si è voluto ingenuamente nascondere. Ora sento che il tuo reportage con la sua vividezza mi ha portato dove non ero riuscito ad andare. Grazie Andrea!
Sono stata a Varanasi pochi mesi dopo la morte e la cremazione di mio padre. Avevo come un conto in sospeso e mi ero detta che mai e poi mai sarei andata ad assistere alle cremazioni. Invece sono stata convinta dalla mia guida che con tatto e discrezione mi ha accompagnata nell’esperienza che ha guarito la mia anima!
Mi avevano messo in guardia su Varanasi, mi era stato detto di prepararmi a chissà quale shock, ebbene io a Varanasi ci sono andata consapevole che qualsiasi cosa avessi trovato mi avrebbe fatto solo che bene. È così è stato! Si, l’assurdo non è credere fortemente nella propria fede ma tutto ciò che noi occidentali non possiamo capire del popolo indiano. Ho assistito per caso a un “funerale”ne ricordo ancora l’odore di bruciato, fortissimo, quasi da non poter resistere e scappare via. Non l’ho fatto, sono rimasta lì a pregare anche io il mio Dio. Grazie 🙏
Un reportage intenso e coinvolgente! Se hai respirato il fumo che addensa l’aria e impregna il corpo e i vestiti; se hai assistito al rito sentendoti “dentro” e pensando, ragionevolmente, che non è Varanasi ad essere assurda; se respirare l’India ti ha ossigenato, vuol dire che la tua evoluzione spirituale è molto avanti!
Andrea, sei bravissimo e fai un lavoro fichissimo!!!
Un abbraccio grande
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7 Comments
Bellissimo articolo corredato da altrettante belle foto
Un posto che fa bene alla tua anima, torni con qualcosa che rimarrà sempre nel tuo cuore…