Sono arrivato a Varanasi a dicembre. L’ho trovata immersa nella nebbia, che spariva dalla mia vista e poi ricompariva, come se giocasse a nascondino e volesse confondermi sulla sua esistenza. Ma forse la nebbia non c’entra. Tutti i viaggiatori, quando tornano a casa, non sanno dire se davvero hanno visitato Varanasi o se l’hanno solo sognata.
Nessuno arriva a Varanasi per caso. Chi decide di raggiungerla di solito ha già una conoscenza approfondita della città, ne conosce storia e tradizioni. Si è documentato.
Eppure, non si è mai preparati alle emozioni contraddittorie che si provano immergendosi nei vicoli della città, passeggiando lungo gli 84 ghat che costeggiano le rive del Gange o assistendo alla cerimonia quotidiana del Ganga Aarti. Per non parlare dei burning ghat, dove si tengono le cremazioni pubbliche che hanno reso la città famosa in tutto il mondo.
Varanasi, e l’India in generale, sono capaci di portare caos e disordine nella mente di ogni viaggiatore occidentale. Dopo lo stordimento iniziale, i più scappano a gambe levate; solo pochi, i più fortunati, riescono a comprenderne il profondo valore esistenziale.
Varanasi, nota in passato come Benares, è una città indiana situata nello stato dell’Uttar Pradesh. Abitata da circa 3.500 anni, è uno degli insediamenti umani più antico al mondo e in assoluto il più sacro per gli induisti.
Secondo i testi sacri, infatti, Varanasi è il luogo in cui venne creato il mondo e l’unico luogo che sopravviverà alla sua distruzione. Per questo motivo, oltre un milione di pellegrini la visitano ogni anno ed è un dovere recarvisi almeno una volta nella vita per bagnarsi nel Gange.
Inoltre, gli induisti credono che morire a Varanasi ed essere bruciati lungo la riva occidentale del fiume consenta di sfuggire al ciclo delle reincarnazioni, o samsara. Non stupisce quindi che Varanasi venga considerata da molti la quintessenza della cultura indiana.
Spesso si sconsiglia di visitare la città a dicembre, per via del freddo e della nebbia. Ciononostante, ho deciso di trascorrervi il Natale.
Per festeggiare, ho scelto un albergo lungo le rive del Gange, che costa una fortuna secondo gli standard indiani. La vista dalla finestra è incantevole e mi offrirà un punto di vista privilegiato sui ghat, le gradinate che consentono l’accesso alle sponde del Gange.
Tra le varie dotazioni di cui la struttura dispone, non manca internet. Evviva! Potrò inviare e ricevere tutti i messaggi di auguri! O almeno così credo. No, perché provo e riprovo ma non riesco a connettermi. È inammissibile, con quello che ho pagato.
Decido di chiamare la reception.
“Scusi, non ho internet in camera.”
“Sì, c’è stato un guasto”, mi risponde una voce. “Internet non è disponibile. Le scimmie hanno strappato i cavi stamattina. Per favore, chiudete le finestre della stanza: potrebbero entrare e rubare”.
“Ah”, rispondo smarrito.
Mi affaccio alla finestra e le vedo. Scimmie. Saltano e penzolano dai cornicioni dell’albergo. Usano i cavi della corrente, alcuni dei quali visibilmente scoperti, come liane nella giungla urbana. Ce n’è una che si aggira lungo un cavo smozzicato. Ci mette una zampa sopra e uno schiocco sonoro ci sorprende entrambi. Io porto le mani alla bocca, incredulo. Lei caccia un urlo disperato e inizia a scuotere la zampetta ferita.
“Enjoy your stay in Varanasi”, dice la voce dall’altro lato della cornetta prima di riagganciare.
Sistemo la valigia in un angolo della stanza ed esco.
Mi voglio concedere subito una passeggiata lungo i ghat. La prima cosa che noto, camminando lungo i vicoli della città, è la quantità stratosferica di rifiuti disseminati ovunque. Per lo più si tratta di feci di mucca e di cane.
A tratti, l’odore si fa così pungente che il mio naso cerca sollievo nel profumo degli incensi votivi che qualche folata di vento trasporta inatteso da chissà dove. Ogni mattina, prima dell’alba, i dalit (o paria) passano per le strade e ripuliscono gli escrementi manualmente, ma la sporcizia torna a “decorare” le strade pochi minuti dopo.
In merito ai dalit, gli intoccabili, bisogna precisare che le caste in India sono state abolite nel 1950. Ciononostante, le discriminazioni sono ancora assai diffuse. Una recente statistica rileva che i matrimoni tra persone di caste diverse sono molto rari, anche se lo stato incentiva i matrimoni misti con somme di denaro.
Allo stesso modo, ai paria, che tradizionalmente sono obbligati a svolgere le mansioni più umili, sono oggi riservati posti di lavoro nella pubblica amministrazione. Eppure, solo pochi si presentano ai concorsi. I più non hanno il coraggio di lasciare l’infimo posto assegnato loro da tradizioni millenarie.
Per comprendere quanto siano radicate le divisioni di casta, basti pensare che un recente studio ha dimostrato che le differenze genetiche tra indiani appartenenti a caste diverse sono maggiori di quelle che si riscontrano tra europei di differente nazionalità.
Cristina, una ragazza che ho conosciuto qui a Varanasi, mi racconta di aver visto un bramino (appartenente alla casta più alta) gettare del cibo ad un cane piuttosto che offrirlo ad un mendicante che glielo aveva chiesto.
Pasolini, nel suo saggio L’odore dell’India, attribuiva la rigidità di queste norme sociali ad una estrema fragilità psicologica, quasi il sintomo di una mancanza di identità nazionale che necessita di norme sclerotizzate per sostenersi. Ecco perché i pellegrini continuano a bagnarsi nel Gange nonostante gli alti livelli di inquinamento. Prendere atto che l’acqua del fiume sacro sia nociva per la salute sarebbe un controsenso ingestibile a livello cognitivo ed emotivo. “Se ho fede in Shiva, non avrò problemi”, ripetono a loro stessi.
Proseguo la mia passeggiata verso i ghat. Faccio i miei primi incontri con le vacche, le capre e i cani. Sono talmente numerosi che rendono minoranza i pedoni umani. Se alzo lo sguardo, vedo saltellare le scimmie tra gli alberi e i tetti delle case.
L’India si dimostra estremamente tollerante verso gli animali. A Varanasi, l’80% della popolazione è vegetariana. Le strade sono popolate da mucche che vagano con lo sguardo perso nel vuoto e che i passanti salutano con sorrisi, carezze e offerte di cibo.
Durante la mia permanenza a Varanasi, ho avuto l’onore di incontrare una vacca bianca con le corna dipinte d’oro. I pellegrini reagivano al suo arrivo con grande gioia, come se avessero avuto una visione mistica. Ognuno la indicava all’altro, che accorreva ad accarezzarla e ad offrirle del cibo. La vacca sembrava accettare queste attenzioni quasi svogliatamente. Anche un baba, assorto da ore nella sua meditazione, si è degnato di alzarsi per accarezzare e nutrire l’animale.
Prakash, la guida che ho contattato per introdurmi al mondo di Varanasi, mi ha spiegato che le mucche hanno tutte un padrone. Di giorno, sono libere di vagare e mangiano ciò che viene loro offerto; al tramonto tornano a casa, dove le aspetta una ciotola piena di cibo. Una vita da regine.
Anche le cugine capre non sembrano passarsela male. Le vedo girare per le strade con dei vestitini niente male: maglioni o t-shirt colorate che qualcuno si è preso la briga di far indossare loro.
“Le vestiamo d’inverno”, mi spiega Prakash. “Fa freddo a dicembre”.
Insomma, mucche e capre sono animali domestici. Altrettanto non si può dire dei cani. Varanasi brulica di branchi di cani pulciosi e malandati. Prakash mi spiega che sono tutti randagi. Nessuno si occupa di loro. Eppure, non è insolito vedere un cane vestito con una maglietta o un pellegrino che cerca di mettere pace in una guerra tra branchi. È poi frequentissimo vedere dei cani che si accompagnano ad una mucca, per rubarle un po’ di cibo, o rannicchiarlesi vicino per scaldarsi.
“Sono stato a Roma una volta”, mi dice Prakash. “So che per voi i cani sono animali di compagnia”, dice ridacchiando.
Gli racconto della scimmia che ha preso la scossa davanti ai miei occhi e lui sorride senza stupore.
“Le scimmie sono molto furbe”, commenta. “Spesso rubano ai turisti. Prima li osservano, per capire quale sia l’oggetto a cui tengono maggiormente. Poi glielo rubano. Spesso si tratta di cellulari. Ma non è il caso di disperarsi. Le scimmie non sanno che farsene dei cellulari. Li usano come merce di scambio. Basta andare da un fruttivendolo, comprare delle banane e offrirle alle scimmie per ottenere indietro il cellulare”.
L’India è un paese delirante, penso. Nel senso che non sai se quello che vedi e senti è vero o se stai avendo un’allucinazione.
Finalmente arrivo ai ghat. Noleggio una barca e navigo lungo tutti gli 84 ghat che si affacciano sulla riva del fiume.
La nebbia è così fitta che nasconde il sole, ma lascia comunque intravvedere il profilo dei palazzi, gli stormi di gabbiani a cui i barcaioli gettano del cibo per divertire i turisti e i pellegrini che si bagnano infreddoliti lungo la riva. È una visione di una solennità che stordisce.
Millenni di storia non hanno modificato nulla di questo posto, delle sue tradizioni e dell’intensità della fede che lo permea. La luce del progresso scientifico non è riuscita a diradare la nebbia mistica di Varanasi.
Gli induisti devono recarsi a Varanasi almeno una volta nella vita, e bagnarsi in almeno 5 differenti ghat. All’alba, è possibile vedere migliaia di fedeli fare le abluzioni. Gli uomini si spogliano, le donne entrano in acqua vestite. Il freddo genera reazioni di stupore, ma di solito viene affrontato con ironia e accettazione. Dopo essersi immersi più volte, aver giunto le mani e pregato, molti si dedicano alla cura del corpo, facendosi lo shampoo.
Non è poi insolito vedere i pellegrini usare gli ultimi scalini dei ghat per strofinare i panni sporchi e lavare i propri indumenti. Una mescolanza di sacro e profano che riscontrerò ad ogni passo.
Ma la cosa che più mi rallegra è vederli giocare tra di loro, schizzandosi come fossero bambini al parco giochi. Iniziano con l’intingere un piede nell’acqua gelata, timorosi e restii a continuare; poi si fanno forza e si costringono a procedere con la forza della fede; infine, dopo aver trovato il coraggio di tuffarsi fino a scomparire sott’acqua, riemergono pieni di gioia e vitalità. E allora partono gli schizzi verso il vicino che non si è ancora immerso, e le risate, le occhiate di intesa, la condivisione.
Mi domando se parte del divertimento non risieda proprio nell’essere immersi in acqua tanto fredda. È nelle situazioni estreme che si verificano i cambi di stato. D’altronde, non ho dovuto camminare in mezzo all’immondizia dei vicoli per potermi aprire alla vista esaltante del Gange?
Mi vengono in mente le parole di Osho, il mistico indiano, quando dice che “il negativo e il positivo sono indissolubilmente e inevitabilmente uniti; sono due aspetti della stessa energia: dobbiamo accettare entrambi”.
È forse per questo che ricordo con nostalgia tanto le spirituali abluzioni quanto l’onnipresente lordume? È possibile affezionarsi anche allo sterco di Varanasi? Inizio a considerare quest’opzione.
Forse avevo bisogno di venire in India più quanto non credessi.
L’imbarcazione sulla quale sono seduto costeggia finalmente il famoso Manikarnika Ghat, il più grande dei due forni crematori presenti a Varanasi. Qui non è possibile fare foto, mi dicono, e la zona tollera con malumore le visite dei turisti. Quello che sto per vedere mi impressionerà moltissimo, ma non per le ragioni che avrei creduto…
Centro della spiritualità non c è INDIA senza vedere Varanasi
Nebbia mista al fumo delle pire sempre accese vicino agli argini del Gange, si anche a me Varanasi è apparsa così ,surreale.❤️
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4 Comments
È vero una mia conoscente è tornata da poco ha detto anche un freddo terribile! …in qualsiasi caso le tue foto fanno sentire a pieno l’anima del luogo e della gente 👏👏
Wow che emozine…. anch io ci vorrei tanto andare…