Nel tragitto che separa Bukhara da Samarcanda, mi dedico una breve sosta a Shakhrisabz, una piccola cittadina immersa nel verde, qualche km a sud di Samarcanda.
La città anticamente era conosciuta con il nome di Kesh, finché Tamerlano non la ribattezzò con il nome attuale. Vi fece costruire edifici e monumenti maestosi, che diedero lustro e fama alla città fino al sedicesimo secolo, quando fu distrutta per vendicare la morte di un cavallo.
“Un eroe è un normale essere umano che fa la migliore delle cose nella peggiore delle circostanze”
Joseph Campbell
“Un tempo Shakrisabz superava Samarcanda per onore e magnificenza”, dice orgogliosamente Mrs Tursinoy, la nostra guida. Sfoggia il tipico sorriso dorato delle donne uzbeke e parla un inglese dalla pronuncia incomprensibile, snocciolato con la velocità di un rosario.
“Shakhrisabz è la città che diede i natali a Tamerlano, eroe indiscusso di tutto l’Uzbekistan. Era un avo di Gengis Khan, simile a lui per temerarietà e capacità militare, ma non fu però altrettanto distruttivo. Amava la cultura e le arti. Durante le sue spedizioni militari, risparmiava artigiani e artisti, li deportava e li utilizzava per costruire le sue città. Gengis Khan ha lasciato dietro di sé solo macerie e distruzione, Tamerlano invece ha costruito alcuni dei più prestigiosi capolavori architettonici del paese”.
“Tamerlano nacque a Kesh, da una famiglia patrizia. Quando divenne imperatore, la ribattezzò Shakhrisabz, che significa ‘città verde’, e vi fece costruire edifici e monumenti maestosi”.
Mrs Tursinoy ci invita ad accelerare il passo, mentre ci dirigiamo verso il Palazzo Ak-Saray, la dimora estiva di Tamerlano. Lunghi viali alberati e distese di erba infinite incorniciano oggi i resti del ‘Palazzo Bianco‘, progettato per essere l’opera più grandiosa di Tamerlano.
I lavori iniziarono nel 1380 e si conclusero 24 anni più tardi. Le dimensioni imponenti dell’opera miravano ad intimidire gli spettatori e l’incisione posta sopra l’entrata del palazzo, scritta a caratteri cubitali, chiarisce ulteriormente il concetto: “Se metti in dubbio la nostra potenza, guarda i nostri edifici”.
Mentre passeggio sotto il pishtak (arco di ingresso) del Palazzo Ak-Saray, provo quasi un sentimento di pietas per la vanagloria di Tamerlano.
Desiderava essere sepolto qui, nella sua città natale, da eroe. Aveva dato esplicito mandato in merito, eppure al momento della sua morte era fuori città e le strade che conducevano a Shakhrisabz erano impercorribili a causa di un’abbondante nevicata. Per questo, i suoi decisero di seppellirlo in un piccolo mausoleo a Samarcanda, che lo stesso Tamerlano aveva fatto costruire destinandolo al nipote. Le ultime volontà del grande condottiero caddero così nel vuoto, incapaci di contrastare la volubilità del meteo. Ironie della vita.
Anche Shakhrisabz subì un destino altrettanto beffardo. La città fu infatti distrutta nel sedicesimo secolo dall’emiro di Bukhara, Adbullah Khan II.
L’uomo l’aveva assediata per conquistarla ma perse il suo cavallo preferito durante la battaglia. In un impeto di rabbia, diede ordine che la città fosse rasa al suolo. Il lascito di Tamerlano non è valso la vita di un cavallo.
Quando finì sotto l’influenza dei sovietici, nel XIX secolo, la città subì gli ultimi sconfortanti cambiamenti e fu ricostruita nel tipico stile asettico uzbeko, con una piazza vuota al centro ed edifici medievali tutto intorno.
Di Ak-Saray oggi resta ben poco: alcuni ruderi del gigantesco portale d’ingresso, ricoperto di mosaici non ancora restaurati, e due torri alte 44 metri. La volta, che era la più grande dell’Asia centrale, è invece crollata. Dove un tempo c’era il cuore del palazzo, oggi troneggia una statua di Tamerlano, così da permettere ai turisti di comprendere le proporzioni originarie dell’edificio.
Nel 2000 il Palazzo Ak Saray è stato inserito dall’UNESCO nella lista dei siti Patrimonio dell’Umanità.
Poco distante dal palazzo, è possibile visitare la moschea Kok-Gumbaz, voluta da Ulugh Beg, nipote di Tamerlano, e il complesso di Dorussiadat, dove sono ospitati alcuni mausolei e una cripta con la tomba destinata a Tamerlano. Vi accediamo trattenendo il respiro.
L’ambiente è buio, l’aria poco respirabile. È qui che Tamerlano avrebbe voluto essere sepolto: i turisti visitano un luogo vuoto, riempiendolo di aspettative.
Con la fantasia, deponiamo le spoglie di Tamerlano nel sarcofago, quasi a voler esaudire la sua richiesta. Quanto è fragile il desiderio degli esseri umani, poco importa se vili o eroi.
Durante il mio viaggio in Uzbekistan, non faccio altro che sentir parlare delle gesta epiche di Alessandro Magno, Gengis Khan, Tamerlano. Uomini che hanno lasciato un segno, uomini i cui nomi occuperanno per sempre lunghi capitoli nei libri di storia. E io, vorrei essere un eroe? Chi sono oggi gli eroi? Come vivono? Come sopravvivono al loro enorme ego?
In risposta, un grido nel buio: “Un euro! Un euro!”
Ci voltiamo di soprassalto, spaventati. Un ragazzo si è intrufolato quatto quatto nella cripta e ci fissa con un sorriso spavaldo. Nel buio della stanza, le ombre disegnano lineamenti vampireschi sul suo viso. “Un euro! Un euro!”
Tra le mani e sotto le braccia tiene decine di borsette colorate. Le bancarelle e i mercatini per turisti ne sono piene.
“Un euro! Un euro!”
Mrs Tursinoy ci invita a non badare a lui. Dobbiamo tornare sull’autobus, la nostra visita è finita. Se vogliamo possiamo prendere una navetta fino al parcheggio, ma preferiamo camminare. Ogni passo che ci allontana dalle finte spoglie di Tamerlano è accompagnato dal grido del ragazzo. Insistente, assillante.
“Un euro! Un euro!”
“No, grazie! Non ci interessa!”, proviamo a dire.
“Un euro!Un euro!”
Continua a mostrarci le sue borsette colorate. Il suo sorriso è a prova di rifiuto.
“Un euro! Un euro!”
Il pedinamento inizia a dare l’effetto sperato. Esasperati e divertiti dai suoi modi strampalati, iniziamo a comprare le prime borsette, sperando di togliercelo di torno.
Ma il ragazzo non demorde. Vuole venderci altre borsette. Molte, molte altre.
Una donna seduta sotto ad un porticato ci fa un segno con le mani, come per dire “È un po’ pazzo, che ci vuoi fare!”
“Un euro! Un euro!”
Sta puntando me. Si avvicina a pochi centimetri dal mio viso, in barba alle distanze di cortesia. Mi guarda dritto negli occhi, carico di speranza. Avverto un click dentro al cervello: mi ha appena conquistato.
“E va bene! Ne compro due!”, rispondo. “Posso farti una foto?”
“Un euro! Un euro!”
Contagiati dalla sua allegria compriamo cinque, sette, dieci borsette. Non si può non accogliere una richiesta, quando è così carica di aspettativa.
Scommetto che è il miglior venditore del paese. Tenace, risoluto, un po’ svitato. Come sanno essere solo i veri eroi.