Non si può visitare il Kerala senza assistere ad un combattimento di Kalaripayattu, la più antica arte marziale di tutta l’India. Risalente a circa 3.500 anni fa, il Kalaripayattu è la madre di tutti gli altri stili di guerra indiani. La sua pratica, insieme allo yoga e l’ayurveda, è uno dei pilastri della tradizione indiana e ha lo scopo di condurre l’uomo al perfetto equilibrio tra mente, corpo e spirito.
Thekkady è uno di quei nomi che si fatica a memorizzare, anche dopo esserci stati. Eppure, questa piccola cittadina sull’altopiano dei Ghati mi regala una delle giornate più intense e ricche di stimoli del mio viaggio in Kerala. A Thekkady si viene per immergersi, armati di binocolo, nel cuore del Parco Nazionale di Periyar, la più famosa riserva di fauna selvatica dell’India del sud. Ma è anche un luogo fantastico per assistere ad uno spettacolo di danza Katakhali, frequentare un corso di cucina tipica e scoprire l’adrenalinica arte marziale del Kalaripayattu. Per giunta, il cibo nei ristoranti è davvero ottimo e il clima resta fresco per tutta l’estate.
Il Kalaripayattu è la più antica arte marziale praticata in India. È originaria del Kerala, dove è nata circa 3.500 anni fa, ma si è poi diffusa in tutta l’India. Etimologicamente si tratta di una parola composta: kalari significa “campo di battaglia” e payattu “lotta”. “Kalari” è anche il nome dell’arena dove si svolgono gli allenamenti e i combattimenti e gli spettacoli dimostrativi. Il kalaripayattu è una disciplina che include diverse pratiche, tra cui il salto, la corsa, diversi stili acrobatici e la lotta con pugnali, spade, lance, arco e frecce.
Le sue radici sono legate all’ayurveda e allo yoga, con i quali condivide una visione dell’uomo concepito come unione di mente, corpo e spirito. Disciplina prediletta dalla casta dei guerrieri indiani, che la praticano sia per la difesa che per la salute personale, raggiunse il suo apice durante le guerre tra i regni Cholas, Pandyas e Cheras, quando la disciplina si affinò e si suddivise in diversi stili.
In Kerala, quest’arte marziale veniva insegnata a tutti i bambini dai 7 anni di età, come tappa fondamentale del loro percorso formativo; tuttavia, durante il dominio britannico, la pratica fu scoraggiata e osteggiata in molti modi, al fine di togliere agli indiani uno strumento di ribellione e lotta contro l’oppressore. Una sorte simile spettò alla danza Odissi, che i coloni britannici, da bravi cristiani, ritenevano troppo sensuale e quindi assolutamente sconveniente. Ma il kalaripayattu, così come la danza Odissi, sopravvisse: continuò ad essere praticata nelle aree rurali, lontano dagli occhi delle guardie inglesi, e tornò in voga dopo la dichiarazione d’indipendenza indiana.
Il kalaripayattu affonda le sue radici nella tradizione vedica: la leggenda vuole che sia stato insegnato direttamente dal dio Shiva al saggio Parashurama, uno degli avatar di Vishnu, il quale, appresa l’arte, fondò centinaia di scuole in tutto il Kerala affinché fosse tramandata alle generazioni successive.
Oggi, le scuole di Kalaripayattu organizzano delle dimostrazioni pubbliche a cui si può assistere pagando un biglietto. I giovani studenti mettono alla prova le loro abilità davanti alla curiosità dei turisti e, perché no, qualcuno di loro potrebbe innamorarsi a tal punto di questa antica disciplina da volerla apprendere iscrivendosi al percorso formativo.
Prenotiamo il biglietto per lo spettacolo che si tiene alla scuola di Mudra Kalari, in pieno centro a Thekkady. Arriviamo con largo anticipo e ci meravigliamo di scoprire che dobbiamo sgomitare per prendere i posti con la vista migliore. Le gradinate poste sopra all’arena sono gremite di turisti curiosi. I lottatori non sono ancora scesi in campo, ma ai lati sono stati già accatastate lance, scudi e bastoni.
Quando entrano i giovani guerrieri, il pubblico li accoglie con un applauso caloroso. Procedono a passo spedito, con lo sguardo fiero. Si posizionano lungo l’arena, senza lasciarsi distrarre dalla presenza di così tante persone. Uno di loro si porta al lato del kalari, dove è situato un altarino votivo. Ne accende le molte candele, mentre torna il silenzio in platea. Segue il Guruvandhanam, una serie di movimenti di riscaldamento in direzione dei quattro punti cardinali. È una sorta di saluto al sole, che ha lo scopo di rilassare il corpo e rafforzare la concentrazione.
Lo spettacolo sta per avere inizio. Tratteniamo tutti il respiro.
All’improvviso, con l’incedere di una musica incalzante, iniziano i combattimenti a corpo libero, alternati ad acrobazie e dimostrazioni di equilibrio. La folla è in visibilio e tra un numero e l’altro, i nostri valorosi saltano sugli spalti e abbracciano gli spettatori, stringono mani e concedono pacche. Trasudano fascino da ogni poro: è impossibile rimanere insensibili al loro spirito indomito. Appena stringono una mano, altre decine si allungano per ricevere lo stesso trattamento. Era simile a questa la gloria dei gladiatori romani? La più soave poesia d’amore potrà mai sedurre quanto una sfacciata dimostrazione di prestanza fisica?
Incalzato dalla musica battente, assisto con il fiato sospeso ad un susseguirsi di acrobazie sempre più ardite. Discendenti dei più valorosi guerrieri indiani, questi ragazzi combattono corpo a corpo, si sfidano con lunghi bastoni, si trafiggono con lance appuntite, si fronteggiano con spade e scudi. Si tratta, è ovvio, di una semplice dimostrazione e i colpi inflitti seguono un copione prestabilito. Eppure, il pubblico grida e tifa come se dovesse davvero scorrere il sangue sulla sabbia.
Il finale di spettacolo prevede un cambio di atmosfera drastico: i tamburi tacciono, sostituiti da un tema trionfale; l’illuminazione elettrica cede il posto al lume delle fiaccole. I lottatori smettono di combattersi tra loro e diventano alleati per un fine superiore, la conquista di un elemento atavico, ricco di implicazioni simboliche primordiali: il fuoco.
Alcuni impugnano bastoni che sprizzano fiamme e li fanno roteare vorticosamente; altri saltano dentro cerchi infuocati, posti uno dopo l’altro, a distanze decrescenti.
Celebrano il coraggio e gli slanci della giovinezza, un’età in cui non si teme nulla perché non si conosce ancora il dolore della perdita.
Lo spettacolo termina: io resto nei pressi dell’arena, la macchina fotografica in mano, passando in rassegna gli scatti che ho fatto. Poco dopo i lottatori escono dagli spogliatoi, scambiando qualche parola e si posizionano a pochi metri da me.
Individuo uno scatto particolarmente riuscito. “È bellissimo!”, commenta Daniele. “Perché non glielo mostri? Potrebbe fargli piacere averlo. Non credo abbiano molte foto dei loro combattimenti”.
Qualcosa mi dice di non farlo, percepisco uno scarto tra questi giovani e il resto del mondo, come una soglia da non oltrepassare. Ciononostante, mi avvicino e chiedo se vogliono che gli spedisca qualche foto del loro combattimento. Mi dedicano uno sguardo di sfuggita, fanno cenno di no con la testa e tornano ad ignorarmi.
“Che maleducati”, commenta Daniele.
“Niente affatto”, rispondo. “La vita li ha voluti attori protagonisti, non hanno bisogno dell’aiuto di un narratore”.