“Bella la chiesa di Abreha We Atsbeha! Ma sarà piena di pulci e zecche”.
Quando si parte per un nuovo viaggio, la prima cosa da scrostare via sono le nostre abitudini. Ci ricordiamo di essere tornati vagabondi selvatici dal nostro ultimo viaggio e ci piace pensarci ancora così, ma la realtà è che pochi mesi dentro casa ci hanno di nuovo trasformato in quello che più detestiamo. Turisti. Occidentali. Iper-puliti amanti del comfort.
Sono arrivato da poche ore in Etiopia e sto per visitare la prima meta del viaggio, la chiesa di Abreha we Atsbeha. Costruita nel X secolo, porta il nome dei due re che introdussero l’Etiopia al cristianesimo.
L’edificio è semi-monolitico: parzialmente scavato nella roccia, parzialmente costruito in muratura. Si trova nella regione del Tigray, all’estremo nord dell’Etiopia. Qui la popolazione è di Religione Copta e le chiese monolitiche disseminate sul territorio sono famose in tutto il mondo, così come i riti che vi si tengono in occasione delle festività religiose.
La chiesa di Abreha we Atsbeha è meno nota di quelle di Lalibela, ma altrettanto affascinante. Sita a pochi chilometri da Wukro, ad un’altitudine di 2200 m, affaccia su un piccolo altipiano con una vista incantevole.
Un sacerdote ci aspetta alla porta di ingresso, ancora chiusa. Quasi un unico blocco di legno, pesantissimo, scavato dal tempo e bruciato dal sole. Senza mostrare il minimo interesse nei nostri confronti, l’uomo apre la porta ed entra. Sono sicuro che compie quel gesto nello stesso identico modo anche quando è solo. Il suo volto e i suoi modi distaccati emanano un fascino senza pari.
Al suo interno, la chiesa è interamente dipinta con scene che rappresentano la storia del Cristianesimo in Etiopia. A terra, un accumulo di tappeti polverosi decorano il pavimento grezzo. Dobbiamo toglierci le scarpe per entrare.
“Bello. Ma sarà pieno di pulci e zecche”.
Sento il commento di sfuggita mentre mi tolgo le scarpe e asciugo il sudore dal collo.
Qualcuno inizia a spruzzarsi di Autan le caviglie, nella speranza che aiuti, qualcun altro ha già chiarito che entrerà con dei vecchi calzini che butterà via appena finita la visita.
“Questa cosa che ci si deve levare le scarpe quando si entra nei luoghi sacri io davvero non la capisco!”, protesta qualcun altro.
Grazie ad un complicato piano voli ho dormito 40 minuti nelle ultime 36 ore. La crema solare protezione 50 si è sciolta con il sudore e sta colando lungo le sopracciglia dentro agli occhi già arrossati dalla carenza di sonno. Al solo sospetto di pulci, ho iniziato a grattarmi braccia e gambe. E non sono il solo.
Malcelando il nostro timore, entriamo scalzi e pruriginosi. Gli affreschi sono del XVI secolo e saturano la vista di colori sgargianti.
Il disordine dei tappeti, la polvere che addensa l’aria, le evidenti infiltrazioni che mettono a rischio il tetto ligneo e i dipinti tutto lascerebbe pensare che la chiesa versi in stato di abbandono. Commentiamo sui criminosi standard di manutenzione di una tale opera d’arte, quando scorgiamo il sacerdote seduto in disparte in attesa che termini la nostra visita. Ammutoliamo. Dalla porta laterale entra la luce pomeridiana, con uno spicchio di vista sulle campagne circostanti, e si riflette sui drappi della sua tunica. Sembra un’apparizione mistica.
Ci godiamo l’attimo, carpendone ogi sfumatura. Odoriamo l’aria, esploriamo con lo sguardo ogni nicchia d’ombra, ammiriamo il bellissimo viso del sacerdote, i suoi occhi inarrivabili e intensi, tentiamo di indovinare quali misteriose riflessioni nascondano.
È una sorta di battesimo. Entriamo ad Abreha we Atsbeha come turisti e ne usciamo viaggiatori. Nessuno ha più parlato di calzini sporchi. Con buona pace delle pulci immaginarie.
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1 Comment
Trovo che i commenti ( li ho letti tutti) del reportage fotografico in Etiopia siano interessanti e incisivi quanto le foto, che da sole colgono l’essenza di questo Paese, soprattutto dell’area Dancalia, ancora misterioso…